Benvenuti nel Qe globale. Già, potete tranquillamente segnarvi la data di ieri sul calendario, cerchiatela di rosso: il mercato ha lanciato segnali chiari di cosa ha bisogno e, state certi, governi e Banche centrali troveranno il modo di accontentarlo. Anche a costo di continuare destabilizzazioni e guerre proxy in mezzo mondo. Cominciamo dal voto francese di domenica, una delle tornate più imprevedibili di sempre e caricata di ulteriore valore simbolico dopo la decisione della Gran Bretagna di andare al voto anticipato l’8 giugno prossimo (Theresa May lo avrebbe evitato volentieri, è stata la Regina Elisabetta a imporlo e il perché di questo diktat è il vero mistero da chiarire): bene, il grafico più in basso ci dice che lo Skew, indicatore della ricerca di protezione da rischi al ribasso sulle Piazze azionarie europee, è ai massimi, un livello mai toccato nemmeno nella crisi Lehman o per il Brexit.
Insomma, la questione non è più il potenziale arrivo di Marine Le Pen all’Eliseo, qui sono molte le anomalie temute dal mercato. Prima, infatti, si dava per certo un ballottaggio Macron-Le Pen che avrebbe visto vincitore il primo: ovvero, un liberale europeista e moderato. Ora i sondaggi parlano di fatto di un’ammucchiata a quattro nell’arco di 5 punti percentuali di differenza, di fatto con tre candidati su quattro non particolarmente graditi a chi investe (e tira i fili). Ma la questione francese è solo l’appendice del caos globale. Ieri le Borse, tranne Londra ancora sotto shock per il voto anticipato, hanno reagito bene e la vulgata vedeva due eventi come i catalizzatori dei rialzi: il dato record delle immatricolazioni di automobili nell’area euro più Efta a marzo, le quali hanno segnato un +10,9% e la decisione di Ubs di alzare il rating del comparto bancario europeo da underweight a neutral, contemporaneamente abbassando quello sugli istituti di credito statunitensi da overweight a neutral.
Vero, sicuramente. Ma se nel primo caso dobbiamo attenderci due fattori reflattivi, ovvero la fine della stagione di incentivazione e una reazione pesante degli Usa per non perdere quote di mercato (tanto più che il crollo delle valutazioni dei bond di grandi gruppi del noleggio come Hertz e Avis, dopo la notizie che hanno scaricato sul mercato dell’usato 400mila auto all’anno, parla la lingua di un effetto subprime sul settore che si avvicina sempre di più), probabilmente attraverso un intervento statale in stile Obama, nel secondo non è il giudizio della banca svizzera a pesare da solo. A muovere gli indici al rialzo è stato il netto rallentamento dell’inflazione nell’area euro.
A marzo la crescita dei prezzi al consumo su base annua si è attestata all’1,5%, interrompendo una fase di accelerazione che perdurava da oltre un anno e che aveva portato il caro vita da livelli di quasi deflazione di inizio 2016 (nel marzo dello scorso anno l’indice segnava crescita zero) a un picco del 2% a febbraio. I dati definitivi diffusi ieri da Eurostat confermano quanto indicato nella stima preliminare e attenuano le pressioni a carico della Bce nella prosecuzione delle sue manovre di consistenti stimoli monetari all’economia. Un trend che ha coinvolto anche l’Italia, dove l’inflazione è risultata pari all’1,4% a marzo dopo l’1,6% a febbraio, ma che nel complesso mostrano anche la natura “variegata” del continente per il quale l’Eurotower è chiamata a prendere decisioni monetarie: si passa infatti da tassi ultra-bassi come quelli registrati in Romania (0,4%), Irlanda e Olanda (0,6%) ad altri molto più alti e oltre il target della Bce, come in Lettonia (3,3%), Lituania (3,2%) ed Estonia (3%).
In attesa della prossima stima flash sull’inflazione, prevista il 28 aprile, la Bce può quindi tirare un sospiro di sollievo: e con lei, i mercati che già temevano il tapering degli acquisti e quindi la fine della pacchia. E a confermare che Mario Draghi potrà operare senza troppo fiato sul collo della Germania, almeno per ora, è proprio l’allarme giunto sempre ieri dalla Bundesbank: tassi di interesse più elevati potrebbero mettere a rischio il 50% degli istituti di credito, circa 800 banche, stando a quanto annunciato da Andreas Dombret, consigliere della Banca centrale tedesca in un’intervista a Boersenzeitung. Insomma, dopo aver strepitato per la profittabilità delle Landesbanken, colpite dai tassi sotto zero, ecco che ora Berlino teme un effetto “banche toscane” per i suoi istituti di più piccola dimensione, legato a una possibile normalizzazione della politica monetaria. Il semaforo di Francoforte su questi istituti «è sul giallo», ha avvertito Dombret, spiegando che la Bundesbank «tiene sotto osservazione queste banche perché sappiamo che, sul fronte dei rischi da variazioni di interesse, sono vulnerabili».
Come ho anticipato, si tratta comunque di istituti di medie-piccole dimensioni per la gran parte, quindi che non coprono una maggioranza critica degli assets di bilancio aggregati nel Paese e per ora «non state accertate vere e proprie carenze». Recentemente, Felix Hufeld, presidente dell’Autorità di vigilanza dei mercati finanziari, Bafin, aveva parlato di circa 150-200 banche sotto osservazione per la stessa ragione su un totale di 1.500 istituti minori vigilati. La Bundesbank, ha aggiunto Dombret, ha avviato, assieme a Bafin, la terza indagine sulle conseguenze di bassi tassi di interesse sul sistema bancario, chiedendo agli istituti piani aggiornati per il periodo 2017-2021 in cinque diversi scenari di tassi di interesse. Inoltre, vengono condotti stress test e richieste informazioni su impieghi nel settore immobiliare, copertura dei fondi pensione e andamento degli standard di concessione di credito. Ma la stessa Bce, a fine febbraio, aveva annunciato un’analisi sulle modalità con cui le banche reagiscono alle variazioni dei tassi di interesse: Daniele Nouy, numero uno della vigilanza bancaria della Banca centrale europea, ha confermato che, in assenza quest’anno degli stress test da parte dell’Eba, «si è deciso di analizzare noi stessi i rischi in caso di rialzo dei tassi d’interesse».
Ed ecco che i nostri amici rigoristi, cominciano a fare dei distinguo, quando si tratta di salvare la ghirba ai propri soldi: a livello di regolamentazione, infatti, Dombret ha detto che la Bundesbank intende presentare, «a breve, proposte concrete su una serie di esenzioni dalla regolamentazione internazionale per gli istituti più piccoli, in particolare per le casse di risparmio e le popolari minori, creando una maggior differenziazione, a livello di rischi e di dimensioni», come già chiesto a inizio marzo dal ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble. E un’ulteriore conferma sull’aria che tira, ce l’ha offerta un report di Credit Suisse dedicato al comparto bancario europeo, il quale – ragionando proprio sul possibile rialzo dei tassi di deposito – ha sottolineato che le banche del Vecchio continente potrebbero trarre maggiori benefici da un aumento dei tassi di deposito che dal tapering. Ma va, chi lo avrebbe mai detto!? Un incremento dei tassi di deposito sarebbe infatti un segnale forte del fatto che la Bce sta agendo, cosa che andrebbe a ridurre la pressione sulla redditività delle banche. Inoltre, un tasso sui depositi più elevato ha un effetto immediato e diretto sui bilanci degli istituti di credito.
Tutto a posto, quindi? Calma, per scatenare un Qe in piena regola di vuole un evento di un certo livello, quindi non è affatto detto che il mercato non conosca una fase di seria instabilità, oltretutto potendo “contare” sui driver politici e geopolitici di elezioni in Europa e guerre potenziali in mezzo mondo. Tanto più che l’America, proprio ieri, ci ha fornito la conferma della sua crisi economica acclarata: questo grafico ci mostra infatti come i ristoranti statunitensi stiano patendo la peggiore crisi dal 2009. E il dato in sé non deve farci pensare soltanto a un calo delle disponibilità di spesa e del potere d’acquisto, ma anche al fatto che, come vi ho più volte mostrato negli scorsi due anni, camerieri e barman sono stati la spina dorsale della crescita occupazionale sotto Obama, al netto di un continuo calo degli occupati più “nobili” nella manifattura: se va in crisi anche questo settore, con quello automobilistico in pieno caos da saturazione di offerta e clientela subprime sul credito al consumo, cosa succede? A quel punto Trump tenterà di usare la leva della spesa pubblica, ma l’unico moltiplicatore del Pil in grado di operare rapidamente e su larga scala è il warfare, ovvero la ripartenza della spesa in armamenti e nel comparto difesa-sicurezza.
Il fatto che sempre ieri la Cina abbia allentato un po’ i controlli di capitale sulle banche ci potrebbe dimostrare che la lotta alle fughe di capitali ha sortito in parte il suo effetto, ma occorre anche ricordare che negli ultimi tre giorni Pechino ha svalutato pesantemente lo yuan, pompando quantità record di liquidità nel sistema, il tutto senza che Trump avesse nulla da dire riguardo la famosa manipolazione valutaria del Dragone. Insomma, serve instabilità geopolitica e un evento di credito in grado di spaventare: le Banche centrali sono pronte, la stessa Fed vedrete che comincerà a mischiare la propria retorica da falco sul rialzo dei tassi con più accomodanti riflessioni sui rischi al ribasso che proprio l’instabilità globale potrebbe portare con sé.
Siamo a un bivio, quello di cui vi parlavo quando – mostrandovi i dati sull’indebitamento globale – vi dicevo che si sarebbe arrivati al redde rationem: il sistema pare aver deciso, servirà un deleverage controllato garantito da eventi di rischio e poi si torna tutti a stampare come se non fosse accaduto nulla. E, come vedete, di potenziali eventi di rischio da brandire come spaventapasseri per i mercati, ce ne sono a bizzeffe. Cosa succederà dopo, non si sa.