Ormai ci siamo, ancora due giorni e sapremo chi si sfiderà al ballottaggio per diventare il prossimo Presidente francese. Come sapete, i quattro candidati più accreditati sono stretti in una forbice di circa 5 punti percentuali, di fatto rendendo l’appuntamento di domenica un vero e proprio thriller. Non solo politico, ma anche economico, visto che se l’unica certezza è che gli investitori stanno vendendo Oat francesi come se non ci fosse un domani, facendo schizzare in aria il premio di rischio richiesto, dall’altro c’è da decidere non solo come posizionarsi nel corso del weekend per l’apertura di lunedì, ma, anche, sul medio e lungo termine in base agli scenari. In tal senso, Ubs ha dato vita a uno stress test. Gli analisti della banca svizzera si sono infatti spinti anche oltre i meri scenari immediati, provando a immaginare le conseguenze sui singoli assets finanziari di una possibile vittoria della candidata del Front National, Marine Le Pen, visto ancora oggi come l’evento più traumatico di tutto, avendo quest’ultima promesso l’uscita da Ue ed euro.
Punto di partenza della simulazione, il prevedibile aumento dello spread che una vittoria di Marine Le Pen potrebbe innescare, allargamento che l’istituto fissa in una forchetta piuttosto ampia, tra i 150 e 500 punti base. Vengono quindi distinti due macro-scenari: il primo in caso di ripercussioni della vittoria di Marine Le Pen anche su scala globale, il secondo con un intervento delle Banca centrale europea in grado di mitigare l’impatto del voto, contenendone le conseguenze su scala europea. Nel primo caso, il più drammatico, un aumento dello spread di 500 punti stima un potenziale crollo del mercato azionario europeo fino al 37,8%, una flessione della moneta unica dell’ordine del 10% confrontato con le principali valute mondiali e una flessione per i bond ad alto rendimento del 17%. Pesanti le ripercussioni soprattutto per i mercati emergenti, con l’azionario che – sempre nel peggiore degli scenari – potrebbe calare oltre il 30%, a fronte tuttavia di un apprezzamento valutario, in crescita fino al 13,4%.
Più contenuto l’impatto nel secondo degli scenari ipotizzati. In questo caso, a seconda dell’ampliamento del differenziale, la valuta europea potrebbe deprezzarsi fino all’8,6%, mentre resterebbe pesante la ricaduta sul mercato azionario, con un calo complessivo per l’Eurostox index del 31,6%. Più che dimezzato l’impatto fuori dai confini del Vecchio Continente: Ubs vede solo una piccola flessione sull’azionario Usa, mentre resterebbe non indifferente l’impatto sugli emergenti.
Restando in Svizzera, c’è invece chi si è concentrato su un’altra criticità potenziale. Credit Suisse, infatti, punta il dito sull’effetto fuga di capitali che l’elezione di Marine Le Pen potrebbe innescare, anche se gli analisti elvetici sono cauti sulla possibilità che la leader del Fronte National possa effettivamente mettere in atto un’uscita del Paese dall’euro: «Il problema non è tanto l’uscita della Francia dall’euro, ma quella dell’euro dalla Francia», sottolineano, immagino anche fieri dell’idiozia che hanno detto. Attualmente Parigi registra un deficit sui saldi Target2, il sistema che regola i pagamenti all’interno dell’Eurosistema, dello 0,56%. Dato modesto se si pensa che l’Italia si attesta intorno al 29%, ma che, a detta di Credit Suisse, «potrebbe crescere ulteriormente in uno scenario di capitali in fuga».
Sul mercato azionario europeo, Credit Suisse stimola un calo possibile del 23%, destinato a ridursi sensibilmente (9%) nel caso La Pen non riuscisse a mettere in atto la sua agenda anti-europeista. Al contrario, una vittoria dei candidati più centristi – Macron e Fillon, pur su sponde opposte – potrebbe avere un impatto relativamente positivo, con una crescita sui listini del Vecchio Continente fino al 6%. Analisi interessanti, ancorché empiriche e condite da banalità economically correct. C’è però una criticità su cui voglio farvi riflettere alla vigilia del voto francese e partendo proprio da questo scenario allarmistico in caso di vittoria del Front National, un deja vù di quanto vissuto prima del Brexit e della vittoria di Donald Trump (cui non mi pare siano seguite cavallette e devastazioni di vario genere).
A terrorizzare i mercati è, di fatto, l’impianto economico dei due candidati outsider, ovvero di Marine Le Pen e dell’antagonista di sinistra, Jean-Luc Mélenchon: entrambi sono strenui oppositori dell’Ue e delle sue politiche, ma anche e soprattutto della globalizzazione, declinata da entrambi i politici in mondializzazione, concetto che in Italia pare relegato al dibattito nell’estrema destra, ma che invece spiega molto più a fondo le distorsioni che stiamo vivendo, visto che contempla anche scenari politici e geopolitici, non solo economici e finanziari. Certo, la Le Pen punta molto sul tasto immigrazione e chiusura dei confini, arma che non ritroviamo nella cartucciera della sinistra, ma il tema di impostazione economica generale, la via che si sta percorrendo, rimane dirimente: basti sentire un comizio di Emmanuel Macron per capirlo. La gente, insomma, mette sempre più in discussione il modello di sviluppo attivato venti anni fa dalla cosiddetta Third Way di Bill Clinton e Tony Blair, la globalizzazione selvaggia che abbatte i confini a colpi di merci e prodotti, incurante di diritti sociali, sindacali, dumping salariale e quisquilie simili.
Il problema è che, anche politici tutt’altro che estremisti, cominciano ad aprire gli occhi (soprattutto in vista del voto) e si trovano costretti ad ammettere che la globalizzazione così come è stata impostata, di fatto senza regole e limiti precisi, ha creato danni che ora è difficile riparare, stante la situazione post-crisi che comunque stiamo ancora vivendo. Ma c’è di più e appare quasi uno scherzo del destino che accada proprio ora, alla vigilia del voto spartiacque francese e di questa dura messa in stato d’accusa dei modelli di sviluppo anglosassoni. All’interno dell’ultimo World Economic Outlook dell Fmi, infatti, è presente un capitolo molto tecnico, ma assai esplicito, nel quale si staglia un concetto che potremmo definire eversivo: dagli anni Settanta a oggi, la quota di reddito nazionale che nei Paesi avanzati è andata ai lavoratori si è fortemente ridotta, almeno di 14 punti percentuali. Al Fmi sono diventati no-global? O sovranisti-identitari? No, semplicemente hanno smesso di negare l’evidenza, intravedendo una traiettoria di rischio al ribasso e, con essa, l’ipotesi dei forconi in piazza e delle varie Le Pen all’Eliseo.
E cosa dicono al Fmi? Il campione preso in esame è quello del capitalismo avanzato occidentale: la quota di reddito attribuita al lavoro, dal 1991 al 2014, si è fortemente ridotta nei 29 Paesi che rappresentano da soli tre quarti del Pil mondiale. Cioè, quasi in tutto il pianeta. Non solo: il Fmi aggiunge un’altra considerazione che piacerà alla sinistra mondiale e spiega che nei Paesi dove diminuisce la quota di reddito attribuita ai lavoratori, aumenta anche la diseguaglianza. Il corollario è che crescono i profitti: soprattutto grazie alla libertà dei capitali dei Paesi avanzati di spostarsi dove il lavoro costa meno. E, siccome il capitale è posseduto dai ceti più avvantaggiati, cresce la polarizzazione dei redditi.
Sì, ciò che avete appena letto è contenuto in un report del Fmi. Il quale si spinge oltre e mette nero su bianco anche le ragioni di questa dinamica: «Il rapido avanzare delle tecnologie e la globalizzazione dei commerci e dei capitali». E qui, appare interessante approfondire. L’istituzione di Washington pone infatti l’accento soprattutto sul tumultuoso avanzare delle tecnologie, riconoscendo in robotizzazione e informatica le cause principali per l’impoverimento del fattore-salario: «I salari crescono più lentamente della crescita della produttività del lavoro», si spiega con un argomento che investe le trattative sindacali in mezzo mondo e farà la gioia di Landini. Inoltre, sta emergendo una novità decisamente preoccupante, poiché destinata a incidere sulla vita di un già tartassato ceto medio, ove questo non sia ormai una specie protetta, degna delle attenzioni del Wwf: a pagare il prezzo più alto sono infatti i lavoratori con professionalità intermedie, i cosiddetti middle-skill, cioè il ceto medio. La rivoluzione tecnologica tiene in piedi infatti le altissime capacità e quelle talmente basse per le quali non vale la pena fare un investimento in robot, ma nel mezzo (ovvero sulla massa), falcia senza pietà.
Ora, se il Fmi in persona arriva a queste conclusioni, nero su bianco, in un documento ufficiale, c’è da biasimare chi è stufo e decide per soluzioni estreme, ovvero per la Le Pen e o Mélenchon? E poi, al netto di qualche timida ammissione, quando avremo il piacere di sentire un mea culpa completo e degno di questo nome a parte di chi, fino a sei mesi fa, ancora glorificava la globalizzazione come panacea di tutti i mali e portatrice di ricchezza a 360 gradi? È inutile mettersi a compilare report terroristici come quelli di Ubs o Credit Suisse, perché quando hai 54 anni e sei senza lavoro, magari con moglie a carico e figlio laureato ma disoccupato anche lui, cominci a fregartene del fatto che la Borsa possa crollare del 30% e della necessità di aumentare la produttività, visto che non hai nemmeno gli occhi per piangere e sei attirato dalle sirene di chi ti prospetta un mondo diverso: qui non si tratta di invocare un nuovo luddismo contro i robot, però una seria riflessione va fatta. Prima che sia tardi e l’unico passatempo resti quello, patetico e in malafede, di cercare ex post le ragioni di una valanga populista alla conquista del globo.
Vi lascio con un paio di grafici per riflettere. Il primo ci mostra come dall’elezione di Donald Trump a oggi, sulle ali dell’entusiasmo per la sua agenda economica e fiscale, il livello mondiale di debito e capitalizzazione dei mercati sia salito di 8 triliardi di dollari, arrivando oggi al record assoluto di 118 triliardi. Il secondo, invece, ci mostra il fatto che – nonostante tutti i guadagni per questa euforia globale siano concentrati nei mercati equity – anche quelli obbligazionari hanno recuperato, come valore, da tutte le loro perdite. Basta aver fatto il primo anno di economia per sapere che questo non è affatto un bel segnale. Bene: e se tutta quell’euforia e quegli animal spirits innescati dalle promesse di Trump dovessero svanire, cosa accadrebbe al mercato? Perché le grandi banche d’affari non spendono mai un quarto d’ora per tail risk macro simili, ma sembrano impazienti di snocciolare cifre da film horror (ultimamente sempre smentite dai fatti, oltretutto) ogni volta che qualcuno che si oppone all’establishment rischia di vincere un’elezione? Rifletteteci, in vista del Circo Barnum che temo andrà in onda a reti unificate domenica sera per gli exit-poll francesi.