Prima di tutto, una premessa: questo è articolo è stato scritto e spedito per l’impaginazione prima che i seggi francesi chiudessero, quindi all’oscuro del risultato del primo turno delle presidenziali. Lo dico perché non leggiate in ciò che sto per scrivere qualcosa di complottista, in caso Emmanuel Macron fosse arrivato al ballottaggio. Vi faccio una domanda: dopo l’attacco sugli Champs Elysees e con la campagna elettorale sospesa per i rischi sempre crescenti, come avete valutato la diffusione dell’informativa dei servizi segreti francesi alla vigilia del voto? Sabato, infatti, tutti i media rilanciavano l’allarme degli 007 d’Oltralpe: primo, i seggi sono bersagli vulnerabili al terrorismo. Secondo, rischio di disordini tra il primo e secondo turno elettorale, soprattutto in caso di affermazione di Marine Le Pen.



Insomma, da un lato una sorta di assist all’astensione, già valutata alla vigilia attorno al 30% (alle 12 aveva votato il 28,5% degli aventi diritto, in linea con il dato del 2012), dall’altro una sorta di pericoloso sillogismo: Le Pen uguale caos. A casa mia, i servizi segreti si chiamano così proprio perché agiscono nell’ombra e in silenzio, operando al fine di prevenire i rischi potenziali senza gettare nel panico la gente: perché questa plateale messa in guardia a 24 ore dal voto, quasi un’ammissione di impotenza di fronte alla minaccia? E poi, perché evocare scenari da guerriglia urbana, invece che fare il proprio lavoro: ovvero, monitorare i soggetti che potrebbero dar vita a proteste violente e metterli in condizioni di non nuocere al dibattito e al confronto politico? Vi ricordo, en passant, che in Francia è ancora in vigore lo stato di emergenza proclamato la notte del Bataclan, quindi non occorrono particolari deroghe all’operato per gli apparati di sicurezza.



Vi dico questo per spiegarvi che ogni notizia può essere letta in modo ambivalente, dipende come vi viene riportata e con quale enfasi: ricordate l’attacco chimico vicino a Idlib, quello che scatenò la rappresaglia Usa contro la base siriana per vendicare quelli che Donald Trump chiamò commosso “splendidi bambini”? L’eco mediatica fu enorme, univoca fin dall’inizio nell’incolpare direttamente dell’accaduto Bashar al-Assad e, in seconda battuta, l’alleato russo. Bene, tra giovedì e venerdì scorsi sono accadute due cose: primo, la Siria spalleggiata dalla Russia ha chiesto più volte un’inchiesta indipendente sull’accaduto, sia all’Onu e che agli Usa, direttamente. Risposta? Nulla. A quanto pare non c’è tutto questo interesse a scoprire la verità. Secondo, l’Onu stessa ha ammesso di non aver trovato alcun legame tra l’attacco aereo nella provincia siriana di Idlib da parte dell’aviazione militare siriana e l’uso di armi chimiche. Il presidente della commissione d’inchiesta del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite (Unhrc) per la Siria, Paulo Sergio Pinheiro, ha annunciato venerdì, durante una conferenza stampa, che non è stato trovato alcun collegamento tra attacco aereo del 4 aprile scorso nella città di Khan Shaykhun e il presunto utilizzo di armi chimiche da parte di Damasco sulla città. «Non abbiamo trovato alcuna connessione tra l’attacco e le emissioni [di gas]. Ci sono diverse versioni, ma non le abbiamo comprovate», ha dichiarato Pinheiro ai giornalisti.



Con riferimento alla relazione dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opcw), Pinheiro ha spiegato che il primo bombardamento ha avuto luogo tra le 6:40 e le 07:00 (ora locale), ora in cui è stata registrata la diffusione di una sostanza chimica simile al sarin. Tuttavia, ha sottolineato che non v’è alcun nesso di causalità tra i due fatti e ha anche precisato che per realizzare l’indagine, i membri di tale commissione avevano parlato con i testimoni, con le persone colpite e gli esperti, oltre che analizzato materiali audiovisivi e fotografici. Avete per caso registrato la stessa enfasi mediatica per questa notizia, rispetto a quella del bombardamento e dell’accusa unilaterale ad Assad di essere un novello Erode? Nemmeno io, peccato si stia parlando di un qualcosa che meriterebbe verità innanzitutto, se si vuole davvero che la Siria trovi pace e la possibilità di guardare avanti: a meno che, l’interesse non fosse altro, allora si spiega perfettamente il silenzio totale dei media su quello che è, di fatto, un atto formale del Palazzo di vetro che scagiona Assad. Sembra l’eco di certi arresti eccellenti in inchiesta roboanti: prime pagine e servizi d’apertura, salvo finire in una breve quando il disgraziato fi turno viene scagionato o assolto dalle accuse.

E veniamo all’Italia. Sempre venerdì, a Borse chiuse, l’ineffabile Fitch ha declassato il nostro rating da BBB+ a BBB, citando tra le ragioni principali la scarsa crescita, l’instabilità politica con rischi di populismi al potere e, soprattutto, la lentezza nell’abbattimento del debito. Ora, chiunque sia in buona fede, sa che in un periodo come questo, dove le carte le dà la Bce, il parere di Fitch conta zero per chi investe: ha, però, enorme valore mediatico. Esattamente come l’informativa dei servizi francesi o la campagna a tappetto contro Assad per l’attacco chimico. In un mondo in cui l’Eurotower compra debito sovrano e corporate con il badile, Fitch si limita a un’operazione tutta politica, oltretutto nemmeno nuovissima nei confronti del nostro Paese. Partendo dal presupposto che sono d’accordo con la tesi sostenuta da Federico Fubini nel suo editoriale di ieri per il Corriere della Sera, ovvero che sui conti – e sulle ricette per rimetterli in ordine – l’Italia è stata troppo ballerina, cambiando alla bisogna e mettendo in campo strategie quasi contradditorie, ma resta un fatto: l’attacco a freddo di Fitch è un favore a Matteo Renzi, non un vero giudizio di merito economico. È un giudizio tutto politico: lungi da me dire che Pier Carlo Padoan stia operando per il meglio e che la cosiddetta manovrina abbia dentro di sé semi rivoluzionari, ma l’attuale esecutivo non ha, come invece vorrebbe far credere Fitch con il suo giudizio, interrotto un percorso positivo e virtuoso (quello del governo Renzi, con Padoan allo stesso posto che occupa oggi), gettando alle ortiche un’esperienza che poteva garantire la svolta. Basti vedere le dinamiche della crescita e quelle del debito con Matteo Renzi a Palazzo Chigi, sono i numeri a parlare.

La crescita, poi, è sempre stata da zero virgola, con l’aggravante però che Renzi si è intestato per mesi e mesi il successo occupazionale legato al Jobs Act, di fatto negando la realtà poi emersa impietosa: finiti gli effetti one-off della decontribuzione, anche la dinamica per il lavoro è andata in stallo. Perché Fitch spara ad alzo zero proprio ora che la manovrina sta transitando dal Quirinale senza l’aumento dell’Iva per abbattere il cuneo fiscale, diktat diretto di Renzi a Padoan, quasi fosse ancora il premier? Timing molto strano, oltretutto a una settimana dalle primarie del Pd, sulle quali grava un pesante rischio di flop dell’affluenza (e quindi di legittimazione implicita di chi uscirà vincitore dalle urne): Fitch ha voluto assestare un colpo basso al governo Gentiloni, puntando a minarne la sopravvivenza fino a scadenza naturale? A Renzi è tornata voglia di voto anticipato?

Appare strano, poi, come Fitch abbia deciso di bocciare il rating proprio quando il governo italiano sta esaudendo i desiderata europei, preparando una manovra tutt’altro che semplice o indolore, evitando la procedura di infrazione e gettando le basi per cercare di limitare i danni del potenziale scatto delle clausole di salvaguardia sul Def 2018. Non dico che si dovesse promuovere il rating, visto che la nostra economia parla da sola, ma astenersi da un intervento in scivolata simile sì. Ovviamente, la notizia di quanto deciso dall’agenzia statunitense (e per metà francese) ha riempito giornali e tg, creando un effetto sfiducia immediato nei nostri conti pubblici: ma cosa è cambiato, davvero, negli ultimi mesi per giungere a una conclusione simile? Di fatto, nulla. Né in positivo, né in negativo: è, lo ripeto, un giudizio politico. E un assist a Matteo Renzi, il quale attende sornione che il voto francese e i suoi ricaschi emergenziali, quelli debitamente resi noti dall’informativa dei servizi, gli offrano ulteriore materiale per operare sull’altro fronte di battaglia, quello contro il “populismo” di Movimento 5 Stelle e dell’asse Salvini-Meloni, senza scordare qualche stoccata all’ex minoranza divenuta scissionista.

La mossa di Fitch è l’architrave di una campagna prima mediatica che economica, il suo giudizio sottende una presa di posizione completamente svincolata dalle dinamiche reali e unicamente fondata su una bocciatura aprioristica di quella che è l’ambivalenza italiana nella gestione dei conti: peccato che sia così da anni e lo fosse anche con Matteo Renzi alla guida del Paese, non siamo diventati dei timidi ragionieri e aggiustatori dell’esistente negli ultimi otto, nove mesi. La settimana che si apre oggi, con il voto del primo turno in Francia a monopolizzare il dibattito sul futuro dell’Europa e non solo dell’Eliseo, ci dirà molto rispetto a questa mossa di Fitch. E lo stesso Matteo Renzi, atteso all’ultima chiamata prima delle primarie di domenica, potrebbe scoprire qualche carta, se i feedbacks che riceverà da politica e mercati gli confermeranno che quel downgrade ha lasciato il segno e può essere sfruttato come arma a finalità interna.

Complotti? No, normale gestione mediatica del potere. Viviamo nella società dello spettacolo, diceva Guy Debard. E non si riferiva a a Ballando o Amici.