Il candidato del Partito socialista, Benoit Hamon, ha preso il 6% dei voti degli operai contro il 36% di Marine Le Pen: sta tutto qui il dato politico che ci arriva dal primo turno delle presidenziali francesi. Di fatto, in Francia i due grandi partiti storici della Republique, sono fuori dal ballotaggio e devono combattere battaglia di retroguardia in vista delle legislative di giugno per cercare di prendere in ostaggio il futuro presidente, costretto a benedire un governo di fatto non suo ma di unità nazionale. Dico questo per un semplice fatto: tra due settimane all’Eliseo ci andrà Emmanuel Macron, uomo senza partito e senza storia, ma con tre grandi punti di forza: una moglie di 25 anni più grande, sua insegnante in gioventù che ha già scatenato le pruderie; è un europeista acritico, quindi buono per tutte le stagioni; ha alle spalle la Banca Rothschild e, quindi, i poteri forti e le consorterie – anche massoniche – che in Francia contano davvero. Per il resto, Emmanuel Macron è il nulla elevato a soggetto politico, è bastato sentire il suo discorso d domenica sera per capirlo: e fa sorridere che a festeggiare il suo approdo al ballottaggio siano quelli che per oltre 20 anni hanno condannato il one-man-party e il “partito di plastica”, riferendosi Silvio Berlusconi e a Forza Italia. 



Emmanuel Macron è un Ogm, un esperimento politico fatto a tavolino: dimessosi a fine agosto dello scorso anno dall’esecutivo in cui ricopriva il ruolo di ministro dell’Economia, quindi parte attiva del disastro francese, in otto mesi è passato dal pressoché anonimato allo sbarco all’Eliseo, il tutto vendendosi come il nuovo che arriva a soppiantare i vecchi partiti. Ma basta guardare ai dati elettorali per capire di quale Paese sia frutto Macron: unendo i voti della Le Pen a quelli di Mélenchon, abbiamo un 40% di francesi che dice no all’Ue e lo dice in maniera netta, determinata, arrivando all’estremizzazione del chiudere anche l’avventura della moneta unica. Di più, persino la Nato viene messa in discussione nei programmi di quei due partiti: insomma, non opposizione all’acqua di rose allo status quo. Inoltre, se andate a vedere il dato dei collegi elettorali che hanno premiato Marine Le Pen, vedrete che sono perfettamente sovrapponibili a quelli che hanno votato “no” al referendum sulla Costituzione europea tenutosi in Francia il 29 maggio 2005. Da un lato c’è un fronte, chiamiamolo sovranista, dall’altro un parvenu a rappresentanza del potere sgretolato di Ps e Repubblicani, i quali per restare in vita devono affidarsi al candidato proxy. Al quale, infatti, hanno già garantito il proprio voto al secondo turno. Mélenchon, invece, ha promesso una consultazione on-line sul da farsi, ma appare difficile un travaso di massa verso la Le Pe. 



La storia pare scritta, insomma. Ma la lezione che dobbiamo trarre dal voto francese è sottotraccia, non sta nei dati ufficiali. Qualcuno si è spinto a leggere nel crollo del sistema dei partiti tradizionali una sorta di prodromo della profezia avanzata da Michel Houellebecq in Sottomissione, ovvero un 2022 che vedrà alle elezioni lo scontro tra il Front National di Marine Le Pen e il Partito islamico sostenuto da Ps e Repubblicani, il quale uscirà vincente. Ora, non essendo un amante dei deliri islamofobi, penso che questa sia soltanto una suggestione fallaciana che lascio volentieri ad altri (la platea è ampia, anche da queste parti), ma resta un fatto: oggettivamente, Macron è l’ultimo bastione di un sistema politico e non solo che sta crollando definitivamente. È l’asciugamani che si usa nell’emergenza per tappare la falla ed evitare che il bagno si allaghi: ma, se si ha un minimo di prospettiva, non ci si deve concentrare sullo straccio, bensì sulla perdita. 



Non hanno agito in questo modo – e non c’è da sorprendersi – i mercati, i quali ieri mattina hanno festeggiato col botto quella che, a loro dire, è l’assicurazione che all’Eliseo ci andrà l’europeista e malleabile Macron, di fatto uno di famiglia (Rothschild). Parigi apriva a +4%, Milano era poco distante e a metà mattina veleggiava a +3,82%: di colpo, il problema di sofferenze e detenzioni obbligazionarie delle nostre banche non esisteva più. Anche perché l’esito del voto ha schiacciato al ribasso gli spread di Italia e Francia nei confronti del Bund, addirittura con l’Oat che vedeva lo yield scendere del 10%: Macron garantiva di nuovo il concetto risk-free al debito sovrano europeo, al resto di penserà Mario Draghi nel board di giovedì prossimo, evviva! Infine, l’euro, volato quasi a 1,10 sul dollaro con somma gioia di Donald Trump. Insomma, tutto benissimo, pericolo scampato. 

Il problema però è altro e consta nel capire un concetto che sta alla base dell’intera impalcatura dell’Unione europea come la conosciamo: serve prendere tempo, perché a governare sono i mercati e non la politica e la situazione economico-finanziaria necessita di mari calmi. A garantire la farsesca corsa delle Borse, infatti, è stata una parola, ma questa non è Macron, bensì collaterale. Sapete perché un’eventuale messa in discussione dell’euro da parte di Parigi terrorizza tanto le grandi banche – i mercati di fatto sono loro -, le stesse che hanno invece digerito senza bisogno di cure shock sia il Brexit che l’elezione di Donald Trump? Per quella parola, collaterale, l’enorme problema degli Stati europei e delle banche, strettamente connesso al concetto di debito. Se infatti tutti sappiamo che l’Europa, così come il mondo, è suturata dal debito, più interessante è capire chi detiene quel debito e cosa può succedere in caso di eventi da tail risk

Per i cittadini di un Paese, il debito sovrano rappresenta il pagamento di diritti sociali in cambio di una servitù al debito di lungo termine come nazione. Per i politici, il debito sovrano rappresenta un mezzo di pagamento per gli schemi di welfare promessi in campagna elettorale. Per le banche, invece, rappresenta qualcosa di più: di fatto, l’aria che respirano, visto che il debito sovrano è – nei fatti – il collaterale senior posto a backstopping principale dei loro spropositati portafogli di derivati. Oggi al mondo ci sono derivati per un controvalore di 700 triliardi di dollari nel sistema finanziario e la grandissima parte di questi è controllata da grandi banche. Ma la cosa che molti non sanno è che oltre 500 di quei 700 triliardi sono legati a due cose: tassi di interesse o rendimenti obbligazionari. Ma perché le banche amano così tanto i derivati? Semplice, perché rappresentano l’asset class perfetta, poiché completamente opaca e quindi prezzabile o trattabile al valore che la banca vuole, alla faccia di concetti desueti come il mark-to-market o la price discovery. Immaginate che spettacolo: poter vendere qualcosa dal reale valore totalmente nebuloso a chiunque (aziende, altre banche, fondi pensione, hedge fund ma anche governi sovrani) e al valore che tu vuoi. Ma proprio perché in quei trades non c’è nulla che si avvicini lontanamente al concetto di valore reale, le banche chiedono alle controparti di postare del collaterale per fare da backstop a quegli scambi: insomma, se qualcosa va storto, quel collaterale è l’asset class di valore reale chiamata a coprire le perdite subite da quel trade. 

E la parte del leone in tal senso, la fanno le obbligazioni sovrane: le stesse emesse dalla Banque de France, le stesse a rischio di devastante re-pricing del mercato nel caso davvero la Francia dovesse uscire dall’euro, se Marine Le Pen arrivasse all’Eliseo. E sapete quale sarebbe l’ammontare di debito – e quindi di collaterale – destinato a essere riprezzato in franchi francesi, in caso davvero si arrivasse al Frexit (o se la Le Pen vincesse, facendo comunque prezzare quell’ipotesi ai mercati, anche se poi non dovesse avverarsi davvero)? Oltre 2,2 triliardi di euro di debito sovrano che necessiterebbe un re-price in base ai nuovi rating di credito e allo status di Paesi extra-Ue. Di fatto, il crollo della catena del rischio di controparte e default a catena. Se prendiamo il dato a livello globale, tanto per avere un’idea, il debito sovrano sta operando da backstop a qualcosa come un nozionale tra i 20 e i 50 triliardi di euro di trades sui derivati. 

Insomma, il Frexit non sarebbe un trauma politico come il Brexit, ma una Lehman Brothers moltiplicata per 10, forse 15 volte. Capite perché le Borse ieri hanno cominciato la giornata come se fossero stati scoperti in contemporanea il vaccino contro il cancro e la soluzione alla fame nel mondo? Perché le banche, ovvero i titoli che le sostengono e le compongono percentualmente di più, hanno festeggiato l’ennesimo calcione al barattolo di un sistema finanziario folle e ultra-esposto alla leva, talmente gigantesca da poter essere distrutta da un movimento anomalo sugli spread e sui tassi. Dell’assetto repubblicano, della minaccia xenofoba, dell’europeismo non frega niente a nessuno: Emmanuel Macron è la polizza vita, a tempo, del sistema finanziario. L’ennesima: figurine che compaiono e scompaiono con il solo ruolo di mantenere in vita lo schema dello status quo, non governare i propri Paesi. 

Per questo io dico che il voto francese ci dice altro e ci pone una domanda enorme: per quanto i Paesi europei potranno eleggere e far governare classi dirigenti imbarazzanti, il cui unico ruolo è quello di fare da sostegno a un progetto europeista che è l’architrave della stabilità finanziaria? Tra cinque anni magari non avremo uno scenario come quello prospettato in Sottomissione, ma, avanti di questo passo, avremo una classe politica ancor peggiore, avremo candidati pre-confezionati dalle elites e preparati in banche d’affari o studi legali per operare in difesa del sistema, non di nazioni e popoli. Senza politica, con la P maiuscola, l’Europa può sopravvivere? È questa la domanda da porsi. Anche perché, al netto del ressemblement già nato in nome di Macron presidente e che ha fatto brindare le Borse, attenzione a un paio di anomalie. Io non credo alla possibilità della Le Pen vincente, ma questo grafico ci dice che le scommesse dei bookmakers stanno tracciando le stesso trend che portò al Brexit, quindi alla sconfessione delle loro quote. Secondo, al ballottaggio la candidata del Front National potrà contare sul 5% ottenuto dal sovranista Nicolas Dupont-Aignas del movimento Debout la France, su qualche voto in libera uscita – e poco tracciabile dai sondaggi – dall’enorme bacino di Jean-Luc Mélenchon e su parte dell’elettorato di Francois Fillon, il quale ha sì invitato a votare Macron per il bene del Paese, ma che annovera, quasi organicamente, tra i suoi elettori movimenti come Manif pour Tous, i quali potrebbero preferire Marine Le Pen al laicista leader di En Marche! 

È tutto deciso? Al 99,99% sì. Ma resta il problema più grande: dobbiamo accettare la morte della politica in nome del mercato? Se sì, inutile lamentarci del proliferare di movimenti cosiddetti populisti. Di fatto, sono soltanto un siero naturale, ancorché inefficace, al veleno che la globalizzazione e la finanziarizzazione selvaggia hanno inoculato nelle vene delle nostre società.