Dunque i dipendenti Alitalia hanno detto no. È la sindrome dello scorpione o un “azzardo morale” che rilancia sul tavolo verde della bisca del voto di scambio la sfida alla fermezza del governo? Chi sarà più incavolato oggi di Matteo Renzi, “azionista di maggioranza” del governo Gentiloni e burattinaio occulto di questa trattativa, per il dilemma cornuto tra il confermare la linea dura e avviare Alitalia verso il fallimento o smentirsi ancora una volta e tirar fuori un salvataggio di Stato, di cui già si parla? Gentiloni l’ha detto in tutti i modi: lo Stato non interverrà più per salvare un’altra volta Alitalia. E ieri Calenda l’ha ribadito. Ma non devono essere né il primo, né il secondo ad andare, il 30 aprile, al voto delle primarie per la segreteria del Pd; e non sono loro a voler progettare un ritorno a palazzo Chigi, nel 2018 se non prima, come invece continua a fare compulsivamente l’uomo di Rignano, che dovrà sostenere la sua rimonta zavorrato dal peso del fiasco storico su Alitalia. Meno suo che di tanti altri, eppure finito come una patata bollente sulle sue mani politiche.



La sindrome dello scorpione è il “cupio dissolvi” dell’antica favola, che molti attribuiscono a Esopo: la rana che si sente chiedere dallo scorpione un passaggio in groppa per attraversare uno stagno e che glielo rifiuta, temendo di essere uccisa; al che lui la rassicura: “Se ti uccidessi, morirei anch’io: non so nuotare!”. Allora quella accetta, ma, a metà traversata, si sente pungere a morte e, esalando l’ultimo respiro, gli chiede: “Ma perché?”. E lo scorpione risponde: “Non ci posso fare niente, è la mia natura”.



Una parte di spiegazione è senz’altro questa dell’incredibile suicidio degli uomini e delle donne di Alitalia. Come ha giustamente osservato l’ex vicepresidente dall’Iri e fine economista Riccardo Gallo, chi ha votato no ha sottovalutato che il costo degli esuberi sarebbe stato ammortizzato dallo Stato e dalle banche. D’altronde c’è stato anche chi, come Ugo Arrigo, docente di Finanza pubblica all’Università Bicocca di Milano, ha sostenuto che i dissidenti hanno scelto il male peggiore, il rischio di chiusura, per non prolungare quella che nonostante i tagli sarebbe rimasta un’agonia.



Questa è, forse, una chiave: per essere sicuramente efficaci i tagli avrebbero dovuto essere molto più severi. Ma come tali sarebbero stati respinti ancor più seccamente, e nemmeno i sindacati confederali si sarebbero sentiti di sostenerne la praticabilità. Comunque, non c’è stato il coraggio politico di minacciarli. E d’altra parte non c’è più in Italia quel “welfare-state” che tante volte in passato – per esempio verso i tipografi, nei primi anni Ottanta – ha risolto i problemi più gravi con la forza dei prepensionamenti: altrimenti, i 5-6000 esuberi che avrebbero equiparato Alitalia a una low-cost avrebbero potuto essere tutti assorbiti con prepensionamenti di massa. Ma è più pensabile, una cosa del genere, oggi? Grazie all’Europa, e mannaggia all’Europa, non più.

A questo punto resta davvero da capire se ci saranno soluzioni alternative o se si andrà, dopo il commissariamento inevitabile, a un fallimento: essendo chiaro che nessun operatore aereo del mondo sano di mente va a investire oggi nei cocci della compagnia italiana. Per carità: il ministro Carlo Calenda ha detto, e fa bene, che “la soluzione che non potrà che essere una vendita, anzi auspicabilmente sarà la vendita della compagnia, in maniera che continuino a esserci voli e connessioni, ma che a pagare non sia il contribuente italiano che dopo 7 miliardi e 400 milioni davvero non ne può più di saldare a piè di lista i conti di Alitalia”. E in quell’avverbio, auspicabilmente, c’è tutto lo scetticismo del mercato. Che è cinico, e senza cuore. In casi del genere, un’azienda vale più da morta che da viva. Fallimento: e vendita a pezzi. Gli aerei, le rotte assegnate dalla Iata, i sistemi, gli uffici, tutto: anche il personale insostituibile, ma non nuovi contratti e a nuove condizioni, peggiorative ovviamente.

Certo, c’è qualcuno al quale tutto ciò va male quasi quanto al personale: i creditori. Ma le due grandi banche che stavano per rimettere mano al portafoglio, Intesa e Unicredit, di più di quel che avevano promesso non possono fare, né vogliono agire i soci arabi, che hanno perso già un sacco di soldi, e gli ex “capitani coraggiosi” della cordata Colaninno del 2007, che peraltro si sono già molti diluiti nel capitale… Quindi o interviene lo Stato, ma il governo ha detto e ripetuto il suo no; o succede il miracolo, e arriva un “anchor investor”, tipo quello che avrebbe dovuto salvare il Montepaschi (chissà, magari Padoan e Renzi potranno chiede alla JpMorgan se ne trova qualcuno di passaggio per il Montepaschi dei cieli). Oppure l’azienda fallisce.

Ma la domanda brutta, quella da non fare, rimane una e una sola: ai dipendenti che hanno votato no, “ben gli sta” un fallimento come dicono gli opinionisti “di destra” – oppure sono vittime incolpevoli, come sostengono quelli “di sinistra”? Difficile dare risposte secche. Sicuramente negli anni si sono sedimentate in quell’azienda posizioni di privilegio e anche di abuso, a causa delle malversazioni e delle esondazioni della politica, che ha riempito la compagnia di galoppini e scrutatori ripuliti in tanti, troppi ruoli. Ma altrettanto sicuramente ci sono ancora in Alitalia molti, moltissimi lavoratori seri e perbene: la maggior parte dei dipendenti lo è.

Quel che non si capisce è perché allora questa fetta larga e sicuramente prevalente non si sia coalizzata respingendo quelli del “male estremo”, non abbiano fatto una “marcia dei quarantamila” come quella che nell’82 cambiò il corso degli eventi in una Fiat inquinata dal terrorismo e stremata dalla contrapposizione sindacale più estrema. Non abbiano creato un fronte del “sì”, disposto ad accettare le condizioni della ripartenza, disposto a disconoscere il fattore vincolante della maggioranza.

Altri tempi, altre condizioni: la Fiat della marcia dei quarantamila era un’azienda sana, con una proprietà vera, Alitalia è decotta e la proprietà attuale è un accrocchio di soci che non hanno più voglia né soldi da spendere. E poi: quella Fiat aveva un management, e che management: Cesare Romiti, Carlo Callieri. Su Alitalia, sorvoliamo.