C’è una convinzione largamente diffusa che l’industria militare sia in fondo un male necessario che tuttavia può offrire anche ricadute positive. Un male necessario perché quello che non realizza un Paese lo potrà realizzare probabilmente un altro: sia una semplice pistola o un carro armato o un aereo da guerra. Con ricadute positive perché si ritiene che la ricerca scientifica e le nuove tecnologie possano trovare un terreno accogliente nelle industrie che, proprio per la loro natura, sono finanziate direttamente dagli Stati. Per esempio, vengono attribuiti al sistema militare americano i primi sviluppi di internet, così come il progresso della ricerca spaziale è attribuito almeno in parte allo sviluppo dei prototipi missilistici per fini bellici.



Si tratta di considerazioni che Raul Caruso, docente di politica economica ed economia internazionale all’Università cattolica di Milano, confuta punto per punto nel suo libro “Economia della pace” (Ed. Il Mulino, pagg. 276), un libro che tuttavia non si limita a esaminare gli effetti immediati delle spese militari, ma guarda con ampiezza di analisi le dimensioni e le ragioni di fondo del sistema economico. “Per economia di guerra – precisa nelle prime righe Caruso – si intende non esclusivamente quella organizzata in preparazione o in risposta a un evento bellico, ma piuttosto un’organizzazione dell’economia e della politica economica che non favoriscono la gestione e la risoluzione dei conflitti sia interni agli stati, sia nelle relazioni economiche con gli altri stati e uno sviluppo economico di lungo periodo”.



Sono molte le ragioni che portano a considerare come la spinta alle spese militari sia complessivamente dannosa per l’economia. Bisogna considerare il fatto che l’industria di guerra è sostanzialmente un’industria non solo dipendente direttamente dallo Stato, ma anche che opera al di fuori della logica di mercato e che quindi non rispetta i parametri di prezzo e qualità che sono indispensabili elementi in una logica di concorrenza. Dove non c’è libertà di mercato proliferano inefficienze e clientelismi, oltre che quella pericolosa malattia chiamata corruzione.

Poi, come ricorda Caruso, c’è un capitale umano che nell’industria militare è molto meno valorizzato di quanto possa essere in un ambito civile. C’è una logica di investimenti con ricadute molto limitate sul resto del sistema. C’è un’accumulazione di risorse (come i depositi di armi e munizioni) per scopi unicamente di deterrenza, che da una parte ci si augura di non usare, dall’altra spinge quasi naturalmente ad avere prima o poi una drammatica sperimentazione sul campo.



Non è così vero che gli Stati Uniti sono una grande potenza economica perché sono una grande potenza militare, è vero semmai il contrario: la potenza militare nasce da un’economia che è forte perché ha un mercato libero, controllato da istituzioni forti, capaci di garantire il rispetto delle regole e delle libertà di consumatori e produttori.

Proprio osservando agli Stati Uniti non si può guardare con preoccupazione alla duplice svolta del neo presidente Donald Trump: più spese militari e meno accordi commerciali, più finanziamenti alla difesa e meno concessioni agli scambi di beni e servizi “civili”. L’apertura delle frontiere al libero passaggio non solo delle merci, ma anche delle persone, delle tecnologie, dei servizi appare un elemento fondamentale sia per una crescita economica complessiva, sia per il consolidamento di una vera economia di pace.

Nel mondo globale in cui fortunatamente viviamo è ora di consegnare ai libri di storia il classico motto dell’antica Roma: si vis pacem, para bellum, sei vuoi la pace prepara la guerra. Sarebbe ora di dire, come affermava Papa Paolo VI: lo sviluppo è il nuovo nome della pace.