Torna a salire la tensione tra Usa e Corea del Nord, ci dicono i grandi giornali. E quale sarebbe la pietra fondativa di questo assunto? Il fatto che Washington abbia inviato un sottomarino nucleare in Corea del Sud. Non fa una piega. C’è però dell’altro da dire e che riguarda sempre un qualcosa inviato da Washington a Seul: nel fine settimana, infatti, è giunta a destinazione la prima parte di componentistica statunitense per il sistema di difesa antimissile Thaad: direte voi, ulteriore riprova della tensione nell’area. Bene, leggete quanto scritto in questo articolo e fate una riflessione: soltanto il 1 marzo scorso, Global Times, giornale diretta emanazione del Partito comunista cinese, diceva chiaro e tondo che quel sistema anti-missile sarebbe stato facilmente distrutto da Pechino, che lo riteneva uno strumento di minaccia.
Sono passati due mesi e tutto è cambiato: gli aerei Usa hanno consegnato la componentistica a Seul senza che la Cina avesse alcunché da ridire, salvo rimbrotti formali, forti anche della destituzione della presidente sudcoreana, poco incline ad avallare i desiderata di Washington ed eliminata per lo scandalo dei suoi rapporti con una donna sciamano. Il sistema Thaad è qualcosa che ha diviso Usa e Cina per anni, di fatto un cambiamento strutturale nei rapporti di forza in quell’area: come è stato possibile che in 60 giorni tutto – o, comunque, moltissimo – sia cambiato? La Corea del Nord è davvero diventata un pericolo tale da portare i due giganti a una mediazione? No, Pyongyang è sempre stata una mina vagante, da anni, ma, altrettanto, è anche sempre stata un satellite di Pechino, la quale lascia fare fino a un certo punto e poi interviene. Se ci sarà azione militare e regime change, sarà la Cina a farlo e non Washington.
La manovra muscolare di Donald Trump, così come il patetico lancio di Tomahawk in Siria o la mega-bomba Moab in Afghanistan, sono solo diversivi per evitare di ficcare troppo il naso nelle questioni interne. Cortina fumogena, di fatto. Due sono le questioni importanti che sottendono queste mosse. Primo, la Cina ha ceduto su un suo dogma, ma lo ha fatto a un prezzo: Washington non metterà più becco sulle manipolazioni valutarie. Secondo, a dispetto di quanto promesso in campagna elettorale, Donald Trump non andrà alla guerra dei dazi con i grandi manipolatori, ma con i soggetti residuali. Ha cominciato con la Vespa e l’acqua minerale italiana, di fatto creando i presupposti per una guerra commerciali con l’Ue e martedì ha mosso le truppe contro il suo vicino di casa. Gli Stati Uniti, infatti, imporranno un dazio doganale fino al 20% sulle importazioni di legname canadese: lo ha annunciato il segretario al Commercio, Wilbur Ross, in una conferenza stampa alla Casa Bianca. La decisione è una conseguenza delle pressioni esercitate dall’industria forestale statunitense sul governo, che da tempo denuncia le sovvenzioni di cui godono i concorrenti canadesi. Da parte sua il governo del Canada ha annunciato che si opporrà con tutti i mezzi a questa decisione, anche con ricorsi all’Organizzazione mondiale del Commercio o con istanze d’arbitraggio nell’ambito dell’Accordo di libero scambio nordamericano. Il primo ministro, Justin Trudeau, ha sottolineato che milioni di posti di lavoro anche negli Stati Uniti dipendono dal flusso di merci, servizi e persone attraverso la frontiera.
Insomma, in nome del protezionismo e dell’America first, Donald Trump passa dalle parole ai fatti. Ma è solo retorica e gestione del consenso interno? No e ce lo mostra questo grafico, dal quale vediamo come il lumber, il legname da costruzione, sia uno degli indicatori macro migliori per segnalare i rischi recessivi. Si mettono in comparazione gli andamenti del prezzo del lumber con il trend dello Standard&Poor’s 500 e, come vedete, siamo in traiettoria molto simile – se non identica – con quella che portò al tonfo del 2008.
Certo, i dazi potrebbero dare un minimo di sollievo al prezzo interno del lumber, aiutando i produttori e così facendo stimolando il mercato immobiliare, ma è la dimensione macro ad allarmare, perché i segnali di recessione sono troppi ormai per essere ignorati. Per tentare un contrasto, Donald Trump intende mettere in campo a tempo di record il piano fiscale messo a punto dalla sua amministrazione, addirittura post-ponendo la costruzione del muro con il Messico, perché sprovvista di coperture. E quando si accantona la promessa principale della campagna elettorale vuole proprio dire che le priorità sono altre. Il presidente Usa vorrebbe abbassare al 15% dal 35% l’imposta per le aziende e al 15% dall’attuale 39,6% quella per i gruppi cosiddetti pass-through: si tratta di quelli che non versano tasse sugli utili realizzati, perché gli utili stessi vengono fatti ricadere sul loro proprietario a prescindere che ci sia stata o meno una loro distribuzione. Sarà poi il proprietario stesso a includere quel dato nella sua dichiarazione dei redditi personale.
In questa categoria di aziende, la principale in Usa, rientrano gruppi piccoli, ma anche grandi studi legali attivi su scala mondiale, hedge fund e le attività immobiliari dello stesso Trump. A beneficiarne sarebbero professionisti che hanno aperto l’equivalente americano di una Srl italiana, medici, avvocati, consulenti e lobbisti oltre alle attività di famiglia del presidente. Trump vorrebbe anche sgravi fiscali per l’assistenza all’infanzia simili a quelli che propose in campagna elettorale su suggerimento della figlia Ivanka, diventata sua consulente alla Casa Bianca. Peccato che le proposte di Trump riducano vistosamente le entrate nelle casse del fisco americano, cosa che andrebbe a pesare sul deficit e sul debito Usa, già in traiettoria ben poco tranquillizzante. Ma Trump sa che serve uno shock, quantomeno emotivo, altrimenti il risveglio degli animal spirits che ha garantito aumenti borsistici record dal suo insediamento, rischia di sgonfiarsi come un soufflé.
E attenzione, perché in un’economia basata al 70% sui consumi, il dato reso noto lunedì sembra spiegare l’aggravarsi della situazione e l’accelerazione impressa da Trump all’agenda di riforme economiche. A darci un’idea della situazione ci ha pensato l’amministratore delegato della catena di negozi di abbigliamento Urban Outfitters, Richard Hayne: «Hanno aperto migliaia di nuovi punti vendita e i prezzi degli affitti sono saliti. Questo ha creato una bolla e, come per il settore immobiliare, ora la bolla è esplosa». Parliamo del settore retail americano, la cui crisi sta accelerando a ritmo davvero impressionante dall’inizio dell’anno. Stando a calcoli di Credit Suisse, da inizio anno hanno chiuso i battenti 2.880 punti vendita, più del doppio dei 1.153 dello stesso periodo dello scorso anno. Storicamente, il 60% di tutte le chiusure viene annunciato nei primi cinque mesi dell’anno e, come ci mostra questo grafico, estrapolando gli annunci di chiusura da inizio anno al periodo attuale su base storica, Credit Suisse stima che entro la fine del 2017 saranno 8.640 i punti vendita che chiuderanno negli Usa, un dato molto più alto del picco storico registrato nel 2008, con circa 6200 chiusure.
In parole povere, il periodo attuale per un settore chiave dell’economia Usa come le vendite al dettaglio è ben peggiore della punta più profonda vissuta nella depressione della crisi post-Lehman. Il tutto, mettendo la questione in prospettiva più ampio, in un contesto che definire lunare appare un eufemismo. Con la Fed formalmente impegnata in una politica di rialzo dei tassi, il mondo comunque beneficia mensilmente di 200 miliardi di denaro stampato dalle altre Banche centrali: siamo al massimo storico, visto che nemmeno nella fase più grave della crisi economica, quando si cercava in ogni modo di puntellare il sistema, si era arrivati a questi livelli. Parliamo di qualcosa come 2 triliardi di denaro a costo zero l’anno e, attenzione, se da un lato questo non ha garantito una ripresa stabile, sostenuta e sostenibile, dall’altro sta operando sotto traccia a livello inflattivo reale, visto che negli Usa l’inflazione sta superando i target della Fed in base a tutte e quattro le modalità di misurazione. I dati ufficiali, infatti, non includono cibo ed energia, quindi se prendiamo in esame l’aumento reale del costo della vita, scopriamo che negli Stati Uniti già oggi l’inflazione si sta avvicinando al 6%. Il tutto con le presse della Fed ferme.
Pensate che il combinato congiunto di manovra shock di Trump sulle tasse (ammesso che il Congresso la approvi, visto che porterebbe un buco di entrate fiscali da oltre 2 triliardi nei prossimi dieci anni, compensabile solo con la speranza di un esplosione della crescita) e operatività reale della Fed, quando il costo della vita negli Usa comincerà non più a mordere ma a devastare l’economia reale, sarà facilmente gestibile, visto che già oggi le Banche centrali stanno operando a tutta forza su misure espansive? A volte, i sottomarini nucleari servono a distrarre da cose più serie.