“Non c’è stato alcun bisogno di discuterne”. Mario Draghi ha troncato così sul nascere ogni speculazione su tempi e modalità della “Exit strategy”, ovvero sulla graduale ritirata dal programma di acquisti di titoli sul mercato da parte della Banca centrale europea. Un fiume di denaro pari a 2.280 miliardi di euro (ovvero più dell’intero Prodotto interno lordo italiano) che ha avuto l’effetto di favorire il risveglio dell’economia dell’area euro. Un risultato di successo, forse di eccessivo successo per i critici del banchiere romano che temono il surriscaldamento del motore dell’area euro. I segnali in questa direzione, per la verità, non mancano: la fiducia dei consumatori europei è salita ad aprile a quota 109,6, a valori che non si vedevano da prima della grande crisi; l’attività manifatturiera, così come l’occupazione, segnalano significativi miglioramenti. Ma all’appello, ha obiettato Draghi, manca il tassello più importante: l’inflazione. “Non abbiamo fiducia a sufficienza – ha detto – per cambiare le nostre valutazioni sulle previsioni di inflazione” perciò “non c’è alcun motivo per deviare dalle nostre indicazioni precedenti”. Prima di rivedere le scelte, insomma, “occorre che un livello di inflazione vicino al 2% valga per tutta l’Eurozona e non per un solo Paese”, ha sottolineato, riferendosi ai dislivelli di inflazione tra la Germania e gli altri Paesi dell’area euro. 



Una doccia fredda, dunque, per chi prevedeva che il direttivo, dopo aver registrato la parziale sconfitta delle forze anti-euro in Francia, potesse aprire uno spiraglio per l’uscita dal Qe o, addirittura, fissare un calendario per l’aumento dei tassi inchiodati (come in Giappone) a rendimenti negativi. Ma Draghi ha risposto alle obiezioni sottolineando che la Bce “non prende decisioni di politica monetaria sulla base di possibili risultati elettorali. Discutiamo di politiche, non di politica”. Certo, concede il banchiere, l’accelerazione della crescita rischia di spiazzare una politica monetaria troppo esuberante, come hanno sottolineato alcuni membri del direttorio. “Alcuni componenti hanno una visione più ottimistica della situazione economica e altri riconoscono che c’è stato un miglioramento, ma ritengono che questo non giustifichi alcun cambiamento nella comunicazione”. Alla fine, però, ha prevalso la linea dell’attesa sponsorizzata dallo stesso Draghi, ben attento a non enfatizzare la forza della ripresa dell’economia. “È vero – ha ammesso il Presidente – che i dati confermano che la ripresa ciclica dell’area euro sta diventando sempre più solida e che i rischi al ribasso sono calati ancora”. Ma questa ripresa continua a essere frenata dall’insufficiente impegno dei governi nell’applicazione delle necessarie riforme strutturali. A pesare sulla ripresa, ha osservato Draghi, sono anche l’ampio ammontare di risorse non utilizzate e il processo di “disindebitamento” ancora in corso.



Il risultato? Per ora la Bce non cambia rotta. Com’era prevedibile, a meno di due settimane dal ballottaggio francese, comunque decisivo per le sorti dell’euro. Tra poco più di un mese, nella riunione che si terrà a Tallinn l’8 giugno, si potrà anticipare la prossima tabella di marcia, anche in base alle nuove previsioni economiche messe a punto dall’ufficio studi. Salvo colpi di scena, però, è assai difficile che la banca modifichi il proprio programma di acquisti prima dei vertici di settembre e di ottobre, quando gli acquisti di titoli potrebbe essere ridotti dagli attuali 60 miliardi mese a 40 o, forse, anche meno. 



Diversi osservatori ritengono che, prima di allora, la Bce potrebbe aumentare i tassi di interesse, in particolare quello sui depositi, ora negativo dello 0,40%. Ma al proposito Draghi si è limitato a sottolineare che i tassi negativi “hanno avuto un forte impatto nel migliorare le condizioni finanziarie per imprese e famiglie” e hanno avuto “effetti negativi limitati”.

Per ora, dunque, non si cambia. Per il bene dell’Italia, l’anello debole dell’Eurozona visto il livello del debito che non scende. Purché il Paese capisca che le armi di Draghi (capace anche ieri di raccogliere l’unanimità dei consensi) stanno per finire.