Parliamoci molto chiaro: se ogni voto – non soltanto amministrativo e quindi locale, ma anche politico nazionale – diventa voto di scambio perché così lo percepiscono i candidati e i loro partiti e a maggior ragione lo vivono gli elettori, in gioco non c’è più una tornata elettorale, ma la stessa ragion d’essere della democrazia, che smette di essere esercizio di sovranità popolare e diventa un mercato delle vacche.
Le ultimissime vicende della finanza pubblica italiana confermano quest’apprensione. Il governo provvisorio di Paolo Gentiloni – in fondo tutti i governi sono provvisori, ma questo lo è di più – ha rabberciato una manovrina per ricondurre i saldi di bilancio entro i tetti imposti dall’Europa, senza alcun colpo d’ala, senza visione strategica e solo con i consueti mezzucci. Ma fin qui, niente di grave: solo ordinaria debolezza progettuale. Per il 2018, invece, si profilano guai seri. Difficilmente nella Legge di bilancio per l’anno venturo, che verrà presentata dal governo e discussa in Parlamento a partire dal prossimo settembre (quindi in pieno clima pre-elettorale) si potrà continuare a fare melina. E infatti per evitare le clausole di salvaguardia che l’Unione europea ci imporrebbe l’anno venturo – o meglio, per limitarne gli effetti – il governo a oggi prevede di aumentare dal 10 all’11,5 per cento l’aliquota Iva sui generi meno tassato, e dal 22 al 25 quella sugli altri. Quindi l’aumento dell’imposta indiretta per antonomasia, appunto l’Iva, mille volte esecrato dall’ex premier Renzi, ci sarà. E poi? Poi basta: e questo è il punto. Di lotta all’evasione fiscale si parla poco e a vanvera, senza né numeri né programmi convincenti; di tagli alla spesa pubblica non si parla proprio più, con buona pace del commissario alla spending review Yoram Gutgeld, che pure da superconsulente McKinsey ha dimostrato di saperci fare eccome, per esempio quando ristrutturò l’assetto organizzativo, e di spesa, dell’esercito israeliano… Ma Roma, in questo campo, è ben peggio della striscia di Gaza. Si sparano meno pallottole, per fortuna, ma si sparano più balle.
E allora? Allora si assiste all’inverosimile. L’inverosimile di una sottosegretaria alla Presidenza come Maria Elena Boschi che evoca l’esistenza di un “tesoretto” da 47 miliardi, nei conti pubblici, spendibili in infrastrutture nei prossimi quindici anni: ma quando mai? E poi: la spesa pubblica, a consuntivo tra il 2015 e il 2016, è scesa di neanche un miliardo. Chiunque abbia gestito non una grande azienda ma anche soltanto una tabaccheria sa che in caso di crisi un imprenditore chiede lo sconto ai fornitori se vogliono farsi pagare: “O mi fate risparmiare il 10 per cento sulle vostre ultime fatture, oppure io fallisco e non vi pago per niente”, e quelli accettano. Anche ai dipendenti si può porre l’ultimatum: o rinunciate a una parte dei vostri compensi o si chiude, e quelli – a meno che non siano dipendenti Alitalia – se hanno un briciolo di fiducia nel futuro accettano.
Lo Stato non lo può fare? Non può chiedere sacrifici una-tantum, ma di quelli risolutivi? E perché mai? Cos’altro fu, l’Eurotassa di Prodi, se non una misura straordinaria di questo genere? Solo che all’epoca sedeva, sulla poltrona di maggior potere del Paese, un personaggio che – piaccia o meno -aveva una grande credibilità e poteva andare in tv, con la sua bofonchiante parlata casareccia, chiedendo sacrifici e promettendo tempi migliori. Adesso, ci siede Renzi, sia pure per interposto Gentiloni, che di meraviglie ne ha promesse tante dal giorno 1 del suo governo senza ovviamente mai mantenere gli impegni; quanto al suo successore, ha se non altro il buon gusto di navigare a quota periscopica senza mai alzare la testa. In un simile quadro, cosa possono mai chiedere agli italiani? E a chi?
Dall’altra parte rispetto a Renzi c’è il Movimento 5 Stelle che, a furia di promettere un insostenibile salario di cittadinanza e di non avere uno straccio di visione organica sull’Europa e sull’euro, rischia di vincere in un Paese che diventerà in breve una seconda, grandissima Roma: una zona franca ingovernata e ingovernabile. Di questo passo l’esito è evidente. Con la fine del Quantitative easing che, grazie alla strategia del presidente della Bce Mario Draghi, ha negli ultimi anni salvato le banche e il Tesoro dal rischio di non riuscire a collocare a condizioni decenti i titoli di Stato italiani; con la probabile sia pur lieve ripresa dei tassi – e il conseguente rincaro del costo del servizio al debito – ebbene: quest’Italia che, sul piano dell’economia reale non è seconda a nessuno, rischia concretamente di ritrovarsi sotto i riflettori della Troika. Ma i nostri leader politici sembrano saperlo perfettamente: protesi tutti, come sono, a precostituirsi degli alibi: “Noi non c’entriamo, la colpa è di qualcun altro”.
Amaramente ritorna l’esempio di Tsipras, salito al potere in Grecia per aver promesso mari e monti, inciampato alla prima curva e oggi governante-fantoccio, in realtà mero esecutore e notaio degli indirizzi europei eppure incredibilmente inchiavardato a una poltrona che conquistò promettendo l’esatto contrario. Sarà Di Maio lo Tsipras italiano?