Fossi Mario Draghi, comincerei a preoccuparmi. Se infatti, da un lato, la conferenza stampa di ieri ha confermato quanto vi dicevo qualche settimana fa, ovvero che giocoforza la Germania avrebbe smesso di contrastare apertamente le mosse della Bce in fatto di politiche espansive, dall’altro la reazione di Borse e cambio dell’euro alle parole ultra-accomodanti e ottimistiche del governatore dell’Eurotower parlava il linguaggio del bluff che sta per essere scoperto. Nessuno sul mercato è ancora così suicida da andare a vedere le carte che veramente Francoforte ha in mano – leggi la realtà macro e, soprattutto, bancario-finanziaria dell’eurozona -, ma è chiaro che, abituati come siamo alle reazioni pavloviane tipo quella di lunedì per la vittoria di Emmanuel Macron, i movimenti di ieri parlano chiaro: Mario Draghi sta coprendo la realtà. 



Vediamo nel dettaglio i concetti espressi nel corso della conferenza stampa: «La ripresa ciclica in corso nell’area dell’euro è sempre più solida e siamo fiduciosi che continuerà ad accelerare e a diffondersi. I rischi per l’outlook di crescita sono in ulteriore calo ma restano prevalenti, mentre le pressioni a livello di inflazione di base restano deboli. Per questo, l’eurozona ha ancora bisogno di un elevato livello di accomodamento monetario». Insomma, come dire che fuori c’è bel tempo, ma potrebbe piovere: certo, può accadere ma come ognuno di noi si premura guardando le previsioni del tempo, così i mercati guardano a cosa accade davvero. Detto fatto, l’euro è schizzato in alto, bevendosi la narrativa della ripresa sempre più sostenuta, ma, nel giro di pochi minuti, ecco che il calo si è fatto sensibile sul cross con il dollaro. 



Per Draghi, infatti, «prima di pensare a una normalizzazione della politica monetaria è necessario che l’inflazione sia al livello desiderato dalla Bce, vicina ma inferiore al 2%, per tutta l’Eurozona e non per un solo Paese. L’inflazione dovrebbe mostrare una convergenza durevole verso il livello desiderato e restarci sulle proprie gambe». Ora, al netto dell’ovvio mantenimento dei tassi al livello attuale, il governatore della Bce ha anche affermato, in maniera chiara, che «se le prospettive dell’economia peggioreranno o divergeranno, diventando meno consistenti con un livello di aggiustamento sostenuto dell’inflazione, il programma di acquisti di bond previsto dal piano di Quantitative easing può essere rafforzato in termini di volume degli acquisti e prolungato anche oltre la scadenza attualmente stabilita a dicembre 2017». Insomma, va tutto talmente bene che l’opzione nucleare è sul tavolo e ci resterà. 



Non solo si potrebbe tornare a un volume aumentato, ma anche operare sulla scadenza: significa rientrare in modalità emergenziale, per questo il mercato ieri ha evitato le solite due reazioni – aumenti euforici o minimi plissé – e ha visto le Borse virare al ribasso. Niente di drammatico, per carità, ma certamente un segnale che il pifferaio di Francoforte sta perdendo smalto nella sottile arte di abbindolare. Anche perché, al netto di tutto, ora Mario Draghi non deve più soltanto giocare di sponda con la Fed, le cui mosse sono annunciate, ma deve mettere nel novero del grande gioco di specchi anche le mosse da scavezzacollo di Donald Trump, la cui mega-manovra fiscale è stata di fatto bocciata dai mercati, viste le prime reazioni e la scontata opposizione del Congresso. Ma, al di là delle mosse d’Oltreoceano, Mario Draghi rischia di compiere un azzardo politico in casa propria. 

Parlando ai giornalisti, il governatore ha infatti dichiarato che «deve essere ben chiaro anche che la Bce non prende decisioni di politica monetaria sulla base di possibili risultati elettorali. Discutiamo di politiche, non di politica». Attenzione, perché un’analisi di Bloomberg ha messo in luce un particolare molto importante. Le mosse della Bce, infatti, sono ritenute responsabili di un grande risultato in favore della visione che i cittadini europei hanno della moneta unica: 4 milioni di occupati in più negli ultimi 4 anni, di fatto una sorta di siero anti-vipera contro il populismo. Sulla carta, almeno. Peccato che non sia così, visto che il primo turno delle presidenziali francesi ci ha dimostrato come il fronte anti-europeista, composto da Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon, abbia ottenuto congiuntamente circa il 40% dei consensi, il tutto con oltre l’80% di affluenza alle urne. Un esercito, di fatto e bipartisan. 

E a confermare questo rischio di sottovalutazione ci ha pensato il capo economista di Commerzbank, Joerg Kraemer, a detta del quale «la ripresa può drenare parte della spinta di cui godono i partiti populisti, ma non è sufficiente a farli sparire. Sarebbe sbagliato seguire una strategia in base alla quale basta stimolare a sufficienza l’economia, generando crescita, per risolvere il problema». E ancora: «Anche se l’economia pare che stia andando bene, c’è comunque presente nella società il desiderio di una minoranza di riprendere il controllo pressoché di tutto: confini, immigrazione, politica monetaria, finanziaria, economia. Questi sono fattori strutturali destinati a rimanere». E i mercati parlano chiaro: nonostante la reazione entusiasta di lunedì, con Cac40 a cannone e spread Oat-Bund in crollo, il titolo di Stato francese a 2 anni ha recuperato soltanto la metà del gap creatosi con il pari durata tedesco nel periodo precedente alle elezioni, sintomo che la paura non è affatto passata del tutto. E questo grafico ci mostra come l’open interest sull’obbligazionario sovrano francese, un misuratore del numero di contratti di essere, da lunedì a ieri era calato solo del 10%, questo nonostante il mondo intero veda Emmanuel Macron già all’Eliseo. 

Normalmente, un abbassamento del livello dell’open interest su questo settore significa una copertura degli shorts, ovvero la chiusura di posizioni ribassiste perché la paura è passata, ma quando il calo è così debole ci dice che sono pochi gli investitori pronti a ributtarsi sull’Oat come asset esente da rischio: suona qualche campanello d’allarme? Dejà vu? E sapete cosa pesa su questa dinamica, oltre ai dubbi legati all’affluenza al secondo turno e alle intenzioni reali di voto degli elettori dei candidati esclusi dal ballottaggio? L’Italia e la sua sempre più marcata instabilità. I telegiornali non ne parlano, perché non siamo a livelli di picco, ma dal crollo di lunedì sull’onda francese, il nostro spread è tornato inesorabilmente a salire attorno all’area dei 200 punti: troppe incognite gravano su di noi e il nostro debito, gli investitori tengono sì un occhio molto attento sulla Francia, ma stanno bellamente bypassando le elezioni tedesche di settembre, concentrandosi sulle urne italiane e sull’ipotesi che Grillo e il suo movimento possano vincere. 

Guardate questo grafico di Bloomberg, ci mostra come la fiducia nell’euro, grazie anche e soprattutto all’operato della Bce, abbia recuperato vigore in tutti i principali Paesi europei: tutti tranne uno, l’Italia. Qui, il combinato tra crisi del credito, sofferenze bancarie e totale assenza di reali politiche per l’occupazione hanno garantito terreno fertilissimo ai cosiddetti populisti, di fatto spalancando un enorme punto interrogativo in faccia ai mercati: se infatti c’è timore per una sorpresa della Le Pen in Francia, nonostante tutto remi contro, quale livello di protezione sceglieranno i mercati quando saranno gli italiani chiamati alle urne? Se per caso la Bce non interverrà, dove andrà a finire lo spread Btp-Bund nelle settimane precedenti al voto? 

Ecco spiegato l’arcano: Mario Draghi ha sottolineato con maggiore chiarezza del solito la possibilità di un rinnovato intervento all-in della Bce sul mercato obbligazionario perché se già che dovrà farlo. Non sa quando, ma sa che dovrà: novembre? Marzo 2018? Poco importa, i mercati attraverso il proxy francese stanno già misurando la temperatura all’Italia in vista del voto, quindi la Bce cerca per l’ennesima volta di calmare le acque, scegliendo toni ultra-accomodanti. Ma, come avete visto, ieri Borsa, cambio dell’euro e spread non ci hanno creduto. 

Qualcosa sta accadendo alla percezione di rischio verso il nostro Paese? Il fatto che, l’altro giorno, il presidente Mattarella, persona ottimamente consigliata in tema economico, abbia convocato i presidenti delle Camere e spronato la politica a dar vita, in fretta, a una nuova legge elettorale, non è casuale. Siamo già in campagna elettorale, almeno sui mercati. La reazione di lunedì alle primarie del Pd, ancorché scontate, potrebbe rivelarci dell’altro. Tutto dipende dalla percentuale con cui Matteo Renzi si aggiudicherà la segreteria: se ricalcherà i livelli bulgari del voto nei circoli, l’ipotesi di una forzatura verso il voto prima della scadenza naturale del mandato dell’esecutivo Gentiloni tornerà prepotentemente in auge. E, statene tranquilli, gli schermi delle sale trading lo confermeranno subito.