Ovviamente non si può dare la colpa a Donald Trump che ha appena festeggiato i suoi primi 100 giorni alla Casa Bianca, ma il dato di fatto, resta: nel primo trimestre di quest’anno l’economia Usaè cresciuta solo dello 0,7%, sotto le attese dell’1% e con la peggior lettura da tre anni a questa parte. Ma c’è di peggio, perché andando a vedere le varie componenti, a soffrire il risultato peggiore sono stati i consumi personali, cresciuti su base annua solo dello 0,23%, il peggior risultato dal 2009. Piccolo promemoria: l’economia Usa si basa al 70% sui consumi. Cosa significa questo? Allarme rosso. Non a caso, Donald Trump, intervistato dall’agenzia Reuters, ha detto che un conflitto «grande, grande» con la Corea del Nord, a causa del programma nucleare e missilistico di Pyongyang è possibile, anche se lui preferirebbe una soluzione diplomatica. «Senz’altro, c’è la possibilità che si arrivi a un grande, grande conflitto con la Corea del Nord. Ci piacerebbe risolvere le cose attraverso la diplomazia, ma è molto difficile».
Nell’intervista, inoltre, Trump ha detto di voler far pagare alla Corea del Sud il costo del sistema antimissile Thaad (un miliardo di dollari), mentre ha annunciato di voler rinegoziare gli accordi commerciali con Seul: insomma, monetizzazione totale della propria protezione, di fatto racket politico. Infine, Trump ha elogiato il presidente cinese Xi Jinping per i suoi tentativi di mediazione con Pyongyang: «Ci prova davvero, credo. Non vuole vedere caos e morte. È una brava persona, l’ho conosciuto bene». Il solito gioco delle parti di cui vi parlo da giorni. Ma c’è dell’altro, dietro le quinte. Giovedì, nel silenzio generale, lo stesso Donald Trump ha firmato la delega al Pentagono riguardo le decisioni operative in Siria e Iraq: ovvero, sul numero di soldati da schierare e di tattiche da utilizzare, non è più la Casa Bianca ad avere l’ultima parola, bensì i generali.
Una mossa, questa, che potrebbe aver fatto irritare il formale “alleato” cinese, visto che il People News, il più importante giornale cinese, per mandare un segnale indiretto si è schierato duramente contro il piano fiscale annunciato dall’amministrazione statunitense, definendolo un provvedimento «che potrebbe aprire a una guerra delle tasse». Se il piano verrà approvato dal Congresso degli Stati Uniti, scrive il Quotidiano del Popolo in un articolo di commento apparso sulla sua versione cartacea, «porterà il caos nell’ordine internazionale di tassazione». L’articolo rivela le preoccupazioni cinesi, anche se non riflette direttamente il punto di vista del governo, perché a firma individuale e non a firma Zhong Sheng, ovvero “voce della Cina”, la sigla usata per esprimere il punto di vista ufficiale della testata. People News, organo di stampa ufficiale del Partito Comunista Cinese, teme anche una possibile risposta al piano fiscale di Trump da parte di altri Paesi, tra cui Gran Bretagna e Francia.
Dalla manovra di Trump scaturiscono diverse preoccupazioni per la Cina, come il possibile aumento di rischi finanziari sistemici e ripercussioni sulla propria economia. Tra i grattacapi degli analisti di Pechino, c’è anche quello che la manovra possa influire sui tentativi del governo di contenere le fuoriuscite di capitali, che hanno contribuito al forte assottigliamento delle riserve valutarie contenute nei forzieri di Pechino, oggi poco sopra quota 3mila miliardi di dollari dai circa 4mila miliardi di dollari del picco raggiunto a metà 2014. Inoltre, Pechino stessa ha abbassato le tasse per le imprese di circa 500 miliardi di yuan (72,5 miliardi di dollari al cambio attuale) lo scorso anno e dal 2015 promuove agevolazioni fiscali per le piccole e piccolissime imprese e per le start-up dell’innovazione. Diversi imprenditori hanno però lamentato una repressione fiscale ancora aggressiva e l’editoriale del Quotidiano del Popolo sta già generando un dibattito sui social media con molto utenti a favore di un nuovo taglio delle tasse anche da parte della Cina.
Come vedete – e come vi dico da sempre – alla base dei conflitti non ci sono più i confini, ma l’economia: se gli Usa sganciano uno stimolo fiscale di quel genere, la Cina rischia di ricevere uno tsunami sui propri conti, un qualcosa che proprio Pechino non si può permettere. Sono solo messaggi per ora, colpi di fioretto per capire chi dei due abbozzerà prima, ma di base restano due fatti: l’economia Usa è al palo e zavorrata proprio dalla sua componente più importante. Due, l’unico moltiplicatore keynesiano del Pil che funzioni con certezza è il warfare, ovvero mettere le ali al comparto bellico-industriale Usa: e la decisione di Trump di delegare poteri esecutivi al Pentagono, parla questa lingua. Dobbiamo davvero cominciare a temere per uno scontro con la Corea del Nord? Io continuo a pensare di no, troppo alti i rischi non calcolabili. Gli scenari più delicati, a mio avviso, restano la Siria e l’Europa.
Sì avete letto bene. Se infatti l’attacco dell’altro giorno di Israele in territorio siriano rimane un serio segnale proxy di possibile escalation contro Assad, ancorché travestita da operazione per bloccare il traffico di armi verso Hezbollah, quanto accaduto l’altra notte al Parlamento macedone deve farci preoccupare. E molto. Non si tratta, infatti, della degenerazione dello scontro politico nato dalle ultime elezioni, con il centrodestra vincitore ma senza i numeri per formare un governo, siamo a una riedizione più pericolosa dell’avventura kosovara. Sono infatti i partiti filo-albanesi che hanno forzato la mano alle procedure parlamentari, al limite del golpismo, per fare eleggere speaker un loro membro, scatenando la reazione della destra macedone, già sul piede di guerra per il sempre maggior potere assunto dalla minoranza etnica interna, la quale è arrivata a chiedere l’adozione dell’albanese come altra lingua ufficiale del Paese. E, guarda caso, mentre ancora la situazione era nel caos all’interno del Parlamento, l’ambasciata albanese a Skopje si premurava con un tweet di rendere noto che riteneva valida e riconosceva la nomina, di fatto compiuta in aperta violazione dei regolamenti parlamentari.
Andate a prendere una cartina e guardate in quale area geografica di enorme strategicità per la cosiddetta “rotta balcanica” si trovi la Macedonia, dopodiché unite a questo la ratifica lampo della scorsa settimana dell’ingresso del Montenegro nella Nato da parte dello stesso Donald Trump, atto che ha fatto infuriare Mosca. Ricordate cosa disse poco tempo fa Jean-Claude Juncker, parlando della politica estera di Donald Trump, dopo che questi aveva festeggiato il Brexit e auspicato l’uscita di altre nazioni dall’Ue? Una nuova guerra balcanica sarebbe alle porte. Vuoi vedere che, magari in un attimo di sobrietà, questa volta il capo della Commissione Ue ci abbia visto lontano? Una cosa è certa, la necessità di un conflitto è confermata non solo dalla tensione geopolitica, ma anche dai numeri: con le multinazionali Usa, come Amazon e Google, che presentano trimestrali da record, la Borsa sui massimi e l’economia reale al minimo da 3 anni, qualcosa scricchiola vistosamente nella sostenibilità del sistema statunitense. I buybacks azionari hanno fatto il miracolo di tenere alte le quotazioni e imbellettare i bilanci. ma non possono andare avanti in eterno, così come la Fed non può realmente perseguire la sua politica di graduale aumento dei tassi, se non vuole schiantare tutto.
Occorre qualcosa che blocchi il processo di normalizzazione monetaria e scateni la necessità di una nuova iniezione espansionistica, un nuovo Qe che tamponi l’esplosione della bolla, sempre più imminente: una guerra è perfetta. Ma perché rischiare con un cliente rognoso e pericoloso come la Corea del Nord? C’è il fronte siriano, dove però la Russia non starà a guardare. E c’è quello balcanico, anch’esso formalmente ancora sotto l’influenza di Mosca, ma, nei fatti, in contesto totalmente Nato e con le truppe dell’Alleanza già sul terreno a controllare la pace post-bellica dei conflitti degli anni Novanta. In realtà, truppe di occupazione geopolitica. Mi sbaglierò, ma quanto accaduto l’altra notte a Skopje puzza molto di telecomandato. E di estremamente pericoloso, perché è letteralmente alle porte di casa.