Per non scomodare Visnu e le sue infinite incarnazioni, basta ricordarsi di Alberto Lupo, cantante confidenziale dalla voce calda e suadente, che nel 1967, esattamente 50 anni fa, cantava su Raiuno: “In quanto modi si può dire io ti amo”: e subito ti viene in mente la Corte dei Conti. Già, perché la massima “magistratura contabile” – come con frase fatta la si definisce, sorvolando sul fatto che della magistratura vera non ha i poteri – emette a cadenza frequente analisi e ricerche sui conti pubblici italiani, connotati da vari nomi, che dicono tutti la stessa cosa: siamo allo sfascio.



Ieri è stata la volta del “Rapporto 2017 sul coordinamento della finanza pubblica”. Nel quale – chi si rivede! – il grande accusato è tornato a essere, dopo un po’ di mesi nei quali lo storytelling renziano l’aveva messo in secondo piano, il “cuneo fiscale”. Ci vorrebbe il grande Totò, che però nel ’67 morì, per ricordarci di come “Cuneo” sia nome ricco di contenuti evocativi: “Sono uomo di mondo, ho fatto il militare a Cuneo”… “Questo” cuneo è uno dei nomi dello sfascio perché è uno dei modi per definire il peso schiacciante che la famelica necessità finanziaria dell’erario pubblico concentra sul costo del lavoro italiano.



Fine dell’analisi: possiamo sì proseguirla per pagine e pagine, ma la sostanza è tutta qui. La coperta della finanza pubblica è corta, e se la tiri da una parte – per esempio regalando 80 euro a 10 milioni di italiani con l’intenzione forse di migliorargli la vita e sicuramente di procacciartene il voto – la stai togliendo da qualche altra parte a qualcun altro, e non con autentica meritocrazia e equità, perché puoi toglierla solo a chi sia costretto a denunciare il suo reddito o il suo patrimonio all’erario, quindi ai cittadini onesti, che non sono purtroppo la totalità dei cittadini.



Per pura pedanteria ricordiamo che il “cuneo fiscale è un indicatore percentuale che indica il rapporto tra tutte le imposte sul lavoro (dirette, indirette e contributi previdenziali) e il costo del lavoro complessivo”. Come pensare che possa scendere se i contributi previdenziali, pur in presenza di un sistema complessivamente più sano e affidabile di quelli di molti altri Paesi, non possono certo essere ridotti e se il prelievo fiscale sul reddito da lavoro dipendente è l’unico che un erario incapace di combattere l’evasione riesce a drenare con adeguata certezza di incasso?

L’iniquità è proprio qui, che il fisco italiano esce da venticinque anni di tentativi di riforma, più o meno in buona fede e comunque nell’insieme incoerenti, senza aver nemmeno intaccato il problema della grande evasione e nemmeno di quella piccola. Alla peraltro brava direttrice dell’Agenzia delle Entrare Rossella Orlandi, che aveva appena vantato il “record” di miliardi di euro recuperati all’evasione pregressa nel 2016 – 19 -, la Corte dei conti replica nello stesso documento di ieri, osservando che questo gettito non è affidabile. Precisamente, una politica fiscale non può fare affidamento su questo gettito perché l’importo può cambiare sensibilmente, anno dopo anno. Per quanto le tecniche di recupero siano state perfezionate, sebbene in misura macroscopicamente inferiore rispetto all’evasione complessiva stimata, non esiste certezza sulla “strutturalità” di quell’introito: e sfido io, in teoria l’evasione dovrebbe essere ridotta e via via cancellata da leggi e normative efficaci, un po’ come il vaccino del colera serve non (solo) a curare il morbo, ma a sradicarlo da un territorio… quindi l’evasione, come il colera, e la relativa lotta all’evasione, con il connesso recupero di gettito, dovrebbero essere voci in gran parte transitorie nei programma governativo di uno Stato civile e organizzato.

La verità è invece che nessuno dei governi degli ultimi vent’anni – non certo quelli di centrodestra, ma men che meno gli altri o quello di Renzi e il suo codicillo gentiloniano – è riuscito a impostare in modo nuovo ed efficace la lotta all’evasione, certo perché è tecnicamente difficilissimo, ma anche perché è altamente impopolare. Una riforma energica dell’argomento transita inevitabilmente attraverso l’aggiunta di metodi e misure complessi e noiosi per tutti. Pensiamo, ad esempio, alla riduzione dell’uso del contante: è chiaro che obbliga anche i contribuenti onesti a dotarsi, ad esempio, dei “Pos” per essere pagati con carte di credito: ma come ottenere il risultato di tracciare tutte le spese se non così? Eppure ricordiamoci quante proteste per esempio da parte degli studi professionali quando venne inserito, con la legge di Stabilità 2016, l’obbligo del Pos a tutti. E cosa fece il governo? Introdusse l’obbligo, previde nella legge sanzioni per i trasgressori anche salate (multe da 500 a 1000 euro) e poi non completò i regolamenti attuativi che avrebbero dovuto concretamente introdurre le prassi sanzionatorie. Quindi oggi negozianti, ristoratori e professionisti che rifiutano ai loro clienti la possibilità di pagare con carta sono in difetto per legge, ma non sanzionabili. E, se qualcuno li denuncia alla Guardia di Finanza, gli fa il solletico…

E poi: accettare la carta di credito dovrebbe essere obbligo sanzionato, ma usarla sopra i 50 euro di importo dovrebbe essere altrettanto obbligatorio. Ma alla condizione, anch’essa da imporre facendo infuriare le banche, che la commissione per quest’uso dovrebbe essere minima…

Insomma: metter mano seriamente alle dinamiche dell’evasione è impopolare. Per questo non è mai stato fatto e si è sempre andati avanti per condoni e autotassazione e ravvedimenti… Nel frattempo riducendo quel presidio occhiuto del territorio in cui si specializzò, peraltro anch’egli poco utilmente, l’ex capo dell’Agenzia delle Entrate Attilio Befera. E accentuando quella sensazione di sostanziale impunità che rende di fatti e da sempre inscalfibile il moloch dell’evasione.

Sfido io che c’è il cuneo, e che supera di 10 punti la media dell’Unione europea.