I cimiteri, diceva Charles De Gaulle citando un aforisma di Clemenceau, sono pieni di persone che si ritenevano indispensabili: e difatti lo statista francese si dimise dopo la sconfitta referendaria del ’69 senza puntare i piedi per protrarre oltre misura la sua vicenda politica inimitabile. Ma quando si parla di leadership, politica o manageriale, il tema dell’avvicendamento ai vertici non è mai pacifico: e nel caso del “de Gaulle dell’auto”, Sergio Marchionne, gli annunci sull’uscita dal vertice della Fiat, anzi di Fca, da qualche anno si ripetono spostando costantemente in avanti il d-day: com’è accaduto ancora, ma con un’importante novità. Ha detto il suo azionista, John Elkann, patron del gruppo Fca: “Marchionne lascerà Fca nel 2019. Il 2018 lo farà tutto perché vuole portare avanti il piano del gruppo, ma poi andrà via. In Fca abbiamo tantissime persone brave che potranno succedergli”.
Qual è la novità? È che Elkann ha voluto troncare i gossip sull’identikit giusto per il dopo-Marchionne riconducendo all’interno dell’azienda il novero dei possibili candidati. Tanto più che la prima linea dell’attuale squadra marchionniana conta vari nomi poco noti – per forza: con un mattatore in pullover al centro, impossibile farsi notare -, ma tutti molto bravi, e coriacei per resistere al rullo compressore italo-canadese che, piaccia o meno, è riuscito dapprima a salvare la Fiat e poi a globalizzarla: manager come Alfredo Altavilla, capo del gruppo nella regione Europa-Mediterraneo, o Stefan Ketter, che risponde dell’America Latina, o ancora Paul Alcala, che si occupa dell’Asia e del Pacifico Cina esclusa, o ancora l’unica donna del supervertice, la cinese Daphne Zeng, che segue appunto la Cina, sono tutti pezzi da novanta. Nessuno li conosce come nessuno conosceva Marchionne prima del suo exploit, ma è gente di valore.
L’uscita di Elkann – alludere apertamente a una filiera successoria interna – al netto di quel che poi accadrà, e che dipenderà dall’ex-giovane capo del gruppo Agnelli, ma anche dallo stesso Marchionne, ha due meriti “ideologici” però, che non vanno trascurati. Innanzitutto ha il merito di essere… meritocratica, cioè punta i riflettori su chi, lavorando all’attuale successo di Fca, sta costruendo le premesse per “ereditarlo”; e poi pone implicitamente l’accento sul valore della specializzazione, un concetto che una certa cultura manageriale ha spesso oscurato e tuttora trova applicazioni discontinue.
Pensiamo alle ultime nomine pubbliche. Pensiamo al caso Finmeccanica. Tre anni fa Matteo Renzi vi pose al vertice un manager che poteva vantare competenze gestionali su quel sistema organizzativamente complessissimo che sono le Ferrovie dello Stato, Mauro Moretti, ma sicuramente non sapeva nulla di industria manifatturiera ad alta tecnologia – qual è Finmeccanica, specializzata in difesa, spazio e aeronautica -, né aveva la minima consuetudine con i mercati finanziari internazionali e i mercati istituzionali mondiali sui quali la Finmeccanica deve impegnarsi per vincere le sue commesse. Il mancato rinnovo di Moretti non si deve ai risultati discutibili del gruppo – buoni sul piano strettamente bilancistico, assai meno apprezzati sul piano strategico -, ma alle sue vicende giudiziarie personali. Invece, il caso Moretti ha riproposto la domanda sulla sostenibilità di candidature manageriali del tutto lontane dalle competenze specifiche richieste in un’azienda specializzata. Peraltro, lo stesso Renzi nei casi – importantissimi – di Eni ed Enel aveva dato l’impressione, compiendo scelte “interne”, col confermare due manager di filiera specialistica come Claudio Descalzi e Francesco Starace, di voler valorizzare le competenze settoriali…
A Moretti lo stesso Renzi, per interposto Gentiloni, ha fatto succedere Alessandro Profumo: un altro personaggio certamente abituatissimo a gestire sistemi complessi, e molto più di Moretti ricco di relazioni internazionali; ma a sua volta del tutto digiuno delle competenze specifiche, sia tecnologico-industriali che relazionali, connesse ai settori dell’armamento, dello spazio e dell’aeronautica nei quali compete Finmeccanica (augurandosi che Profumo voglia cancellare il nuovo nome di Leonardo appiccicato alla holding da Moretti).
Un altro caso emblematico è quello di Andrea Guerra, già celebratissimo capo della Luxottica che però, uscito dal gruppo leader nell’occhialeria e approdato nel ruolo di superconsulente industriale del governo per il caso Ilva e per mille altri dossier industriali scottanti, non ha toccato palla per poi ripiegare in una posizione interessante e forse anche divertente, oltre che lucrosa, cioè il vertice di Eataly, e tuttavia inconfrontabile col prestigio e col potere del vertice di Luxottica: in cosa eccelle, dunque, Guerra? Nelle competenze metodologiche che accomunano un top-manager a prescindere dalla loro applicazione all’industria, al commercio o ai servizi? Si vedrà.
Certo è che le competenze verticali non sono secondarie. Diceva Francesco Caio nelle sue prime settimane al vertice di Avio dopo essere vissuto decenni da top-manager nelle telecomunicazioni, che “la mia curva di apprendimento si è fatta ripidissima”, riconoscendo, con un’umiltà intellettuale insospettabile in un tipo sicuro di sé come lui, che le competenze metodologiche da sole non bastano. Poi Caio ha fatto bene ad Avio, e successivamente anche alle Poste, pur provenendo anche lì da un altro pianeta: ma non sempre questo genere di ciambelle riescono col buco.
Dunque onore a Elkann: se un’azienda funziona, deve saper formare al proprio interno i manager del suo avvenire. Poi tutti pensano che Marchionne resterà in Fiat fino a miglior vita: in fondo ha appena 65 anni, nel 2019 ne avrebbe 67, ma non è soggetto alla legge Fornero, beato lui, da doversi pensionare…