La reazione dei mercati alla notizia dei bombardamenti americani in Siria si è fatta sentire subito con modalità abbastanza prevedibili; in rialzo l’oro, bene rifugio per eccellenza, e anche il petrolio, dato che in Medio Oriente si produce più di un quarto del greggio globale. Il “mercato” è andato a parare dove non si poteva sbagliare senza troppi ragionamenti né di breve, né, tanto meno, di medio lungo periodo; gli investitori si muovono in un ambiente estraneo in cui tutti gli strumenti di previsione usuali sono inutili. La questione che si pone è se la decisione di bombardare la Siria da parte di Trump è l’inizio di un conflitto tra le parti in gioco più diretto e “fisico” oppure se è “solo” una nuova fase dello stesso scenario degli ultimi anni.



Il mercato in questo momento, come tutti, non può e non sa rispondere a questa domanda fino in fondo, anche se non sembra aver scommesso sulla prima possibilità. Il prezzo del petrolio è salito, ma senza strappi violenti e il rublo si è indebolito, ma in misura limitata. Se si scontasse una guerra avremmo assistito a variazioni molto più decise. La conclusione, per gli investitori, è che sia troppo presto per decidere che l’elemento di novità di ieri sia già una rottura dello scenario che conosciamo.



Ci sono due questioni o conseguenze su cui non si può sbagliare; la prima guerra in Iraq è iniziata con il petrolio tra 15 e 20 e in meno di tre mesi l’ha spinto a 40, la seconda guerra in Iraq è iniziata con il petrolio a 25 e due anni dopo il petrolio costava 50 dollari al barile. Oggi il conflitto non ha toccato direttamente l’Arabia Saudita e non ha toccato le rotte che passano per il Mar Rosso, ma una qualsiasi evoluzione che renda possibile o probabile impatti sulla produzione avrebbe conseguenze simili con rialzi del greggio sensibili. Si porrebbe la questione di un prezzo del petrolio più alto e quella, per un Paese come l’Italia, di assicurarsi forniture di gas e petrolio; un tema che oggi sembra fantascienza ma che non può non essere preso in considerazione considerato la seconda questione che non si può ignorare.



La Russia è coinvolta direttamente nel conflitto e il minimo che si possa prevedere è un inasprimento delle sanzioni. L’Italia è il secondo Paese per export dell’Ue verso la Russia, ma soprattutto importa più del 30% del gas che consuma dal Paese e, proprio a causa delle sanzioni imposte dall’Europa, ha dovuto rinunciare al gasdotto South Stream. Anche in questo caso non è particolarmente difficile immaginare uno scenario in cui l’Italia si deve accordare con altri Paesi del Mediterraneo, tutti ovviamente democraticissimi, oppure con i Paesi europei, alleati di ferro, da cui passano i gasdotti.

Le reazioni che si sono viste sul mercato ieri non ci hanno detto a quale livello di scontro arriverà il conflitto, ma hanno suggerito quali potrebbero essere le conseguenze di un suo inasprimento. L’Italia ne sarebbe impattata in modo diretto sia perché partner commerciale della Russia, sia perché completamente dipendente dalle forniture estere di gas e petrolio e perché la sua politica energetica negli ultimi anni ha subito molti contraccolpi: le indagini su Eni e Saipem, la mancata costruzione del South Stream, i cattivi rapporti con l’Egitto, il bombardamento e il caos in Libia oltre alle resistenze interne contro gasdotti, rigassificatori e perfino turbine eoliche. La scelte di campo di Francia e Inghilterra, che hanno bombardato la Libia, in Medio Oriente sono state molto più nette e molto più allineate a chi nel conflitto si oppone a Assad e alla Russia e bombarda da anni lo Yemen. L’Italia da questo conflitto ha molto più da perdere di tanti suoi “alleati” europei; l’ennesima sfida per un continente che fa molta fatica a muoversi unito in economia, così come in politica estera.