Il consiglio dei ministri varerà martedì la manovra di politica fiscale per aggiustare i conti e Paolo Gentiloni promette che non sarà una manovrina, nel senso che oltre ai rincari previsti per racimolare 3,4 miliardi di euro come chiesto dall’Unione europea ci saranno misure per favorire gli investimenti e stanziamenti per la ricostruzione dopo il terremoto nell’Italia centrale. Da quel che si capisce, verrà fuori un pot-pourri di provvedimenti senza una chiara strategia. Un po’ di imposte indirette (l’ultima trovata sarebbe la tassa sulla Coca Cola), qualche taglietto lineare (alla faccia della sempre sbandierata e mai praticata spending review), alcune concessioni. Il ministro dell’Economia, tra i paletti imposti da un Pd che pensa solo alle elezioni e un’Unione europea che vuole il rispetto dei parametri, finisce per scontentare gli uni e gli altri.
Le privatizzazioni sono la cartina di tornasole. Di fronte ai veti del Pd, Pier Carlo Padoan ricorre al vecchio espediente di passare altre quote delle aziende pubbliche alla Cassa depositi e prestiti. Finte privatizzazioni, dunque, una partita di giro, se non fosse che il bilancio della Cdp non entra nel perimetro della spesa che produce debito grazie all’espediente di lasciare alle fondazioni di origine bancaria il 15,9% del capitale.
Si dirà che questi mezzucci servono a placare Pierre Moscovici e gli eurocrati di Bruxelles, quindi per capire la vera linea di politica economica bisognerà leggere il Documento di economia e finanza. Vero, aspettiamo prima di dare giudizi infondati. Ma stando a come vanno le cose, ascoltando il rumore di fondo e i clamori fuori scena, ragionando su quel che vanno dicendo gli esponenti dei maggiori partiti, guardando a ciò che emerge dal Movimento 5 Stelle, il quale contende al Pd il primato dei consensi elettorali, ebbene non si trova nulla che faccia intravedere un radioso avvenire.
In un bilancio pubblico di per sé risicato a causa del debito sempre crescente, l’Italia ha avuto margini di flessibilità considerevoli (i 19 miliardi che sempre ci rinfacciano a Bruxelles). Negli ultimi tre anni, nonostante le tirate contro l’abominevole austerità, la politica fiscale è stata sempre espansiva, il disavanzo superiore agli impegni previsti, il debito è aumentato. Nel grande scontro sulla riforma della Costituzione, perduto da Matteo Renzi, nessuno ha ricordato che è stata approvata una norma la quale impegna al pareggio del bilancio. Destra e sinistra se la sono dimenticata, hanno fatto finta di niente, nessuno l’ha rispettata in passato e tanto meno lo farà in futuro. Non lo farà un Pd che pensa di conquistare voti con la politica delle elargizioni assistenziali. Tanto meno lo farà il M5S che, a detta dei suoi capi, vuole un reddito di cittadinanza finanziato con i risparmi sui vitalizi parlamentari (sic!) e la sempiterna lotta all’evasione.
Ma se non si riduce il debito pubblico non c’è spazio per nessuna politica fiscale in grado di aumentare la crescita. Non solo. I mercati finanziari (sia i risparmiatori privati, sia gli investitori istituzionali, nel nostro caso per lo più le banche italiane) dai quali dipende la collocazione dei titoli di debito pubblico e il loro valore, guardano con preoccupazione al rischio che il prodotto lordo non cresca abbastanza per pagare gli interessi. Grazie alla Bce, il servizio del debito in questi anni si è ridimensionato, ma di qui alla prossima primavera bisogna aspettarsi un ritorno alla norma, come dicono gli economisti, cioè tassi d’interesse crescenti (comunque non più negativi) e una riduzione progressiva negli acquisti di titoli pubblici. Il Tesoro, dunque, dovrà spendere di più e contare esclusivamente sul mercato per piazzare i suoi Btp.
Padoan lo sa bene, ma non riesce a convincere il Parlamento e tanto meno il Pd, il partito di governo al quale fa riferimento. Con il risultato di avvicinarsi alle elezioni con una crescita reale debole, un’inflazione piatta, un debito che viaggia oltre il 133% del prodotto lordo. Molti investitori stranieri avevano scommesso su un’Italia che cambia in meglio, adesso invece aspettano. C’è chi teme una nuova emergenza simile a quella del 2011, con lo spread fuori controllo. Ma anche i più benevoli sono scoraggiati da una classe dirigente incapace di capire quali sono le priorità vere e di mettersi in gioco cercando di risolverle. Tra futurologi da meraviglie del possibile e demagoghi illusionisti, cercasi qualcuno in grado di staccarsi dalla folla, come il bambino nella favola di Andersen, e gridare il re è nudo.