Nel momento in cui spedisco questo articolo per essere impaginato dalla redazione, i gazebo dei Pd sono ancora aperti e l’unico dato certo – prendendolo per buono – sono i 701mila votanti alle primarie per il nuovo segretario registrati alle 12. Capite, quindi, che questo articolo nasce zoppo, per il semplice motivo che mentre ora state leggendolo, sapete già con certezza non tanto chi sia il nuovo numero uno del Nazareno – quesito poco enigmatico fin dall’inizio -, ma quale sia il mandato popolare di cui possa godere, ovvero il numero di persone recatesi davvero a votare. Ed è questione dirimente, perché una legittimazione figlia di un milione e rotti di persone è una cosa, mentre un dato più stiracchiato potrebbe mettere le ali all’opposizione interna di Orlando ed Emiliano, creando non solo i prodromi di nuove tensioni tra correnti, ma anche una sorta di ingovernabilità del principale partito italiano, visto che è architrave portante del governo in carica.



Questa premessa non nasce per un’analisi dei destini del Pd, quanto per un approfondimento di quello che vedo come un colossale errore politico cui il governo Gentiloni sta acriticamente accodandosi, senza rendersi conto della strumentalità di quanto deciso sabato scorso in sede europea e delle conseguenze dirette per l’Italia. Serve un esecutivo forte e legittimato e questo può nascere solo dalle urne, qualunque sia il risultato: per questo un Pd solidamente nelle mani di Matteo Renzi è, a mio avviso, un male necessario.



Partiamo dall’argomento, ovvero la riunione dei capi di Stato e di governo dell’Unione, ovviamente senza la Gran Bretagna, che prima del weekend ha approvato le linee guida europee per il negoziato sul Brexit. C’è voluto meno di un minuto, mai in sede comunitaria si era stati così compatti e senza spaccature: «Le linee guida sono state approvate all’unanimità», ha twittato il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk. Ovviamente i negoziati veri e propri partiranno solo dopo la formazione del nuovo governo britannico all’indomani del voto anticipato dell’8 giugno, ma i 27, mostrando solerzia che tradisce altre finalità, si sono portati avanti e hanno fissato i loro principi negoziali. Prima si definiranno i termini del divorzio, solo dopo si parlerà dei futuri rapporti tra Unione e Regno Unito. Ovvero, patti chiari su diritti dei cittadini comunitari residenti in Gran Bretagna (per Bruxelles dovranno avere la residenza a vita chi vive nel territorio di sua Maestà da almeno 5 anni), gestione dei confini e conto d’addio.



Fin qui le stime prevedevano che gli impegni finanziari presi da Londra nei prossimi anni, e che per gli europei dovranno essere onorati anche dopo la Brexit, ammontassero a 60 miliardi (gli inglesi calcolano una parcella inferiore alla metà), ma il conto potrebbe essere più salato e non a caso il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, ha sottolineato che quella circolata è solo «una stima prudenziale». Di più: «C’è la sensazione che qualcuno in Gran Bretagna si faccia delle illusioni, deve essere detto chiaramente che è tempo sprecato». Non la pensa così, forse per strategia e per non farsi vedere intimorita in piena campagna elettorale, Theresa May, la quale ha definito le posizioni Ue sul Brexit, «soltanto posizioni negoziali dei 27» e ha ribadito le sue priorità: libero mercato senza dazi, fine della giurisdizione delle Corti europee, fine della libera circolazione dei migranti, come illustrato in un suo discorso alla Lancaster House a gennaio.

A un cronista del Daily Telegraph, durante una tappa della sua campagna elettorale in Scozia, la May ha dichiarato che «innanzitutto vorrei insistere sul fatto che non abbiamo un accordo sul Brexit da Bruxelles. Abbiamo le loro linee guida negoziali, abbiamo le nostre linee guida negoziali attraverso la lettera ex articolo 50, e il discorso alla Lancaster House da me pronunciato sull’argomento a gennaio», con la volontà di controllare l’immigrazione e porre un termine alla giurisdizione delle Corti Ue. Inoltre, «è importante che intorno al tavolo si sieda un forte premier del Regno Unito, con un forte mandato da parte del popolo del Regno Unito, un fatto che rafforzerà la nostra posizione negoziale per garantire che otterremo il migliore accordo possibile».

Ma qual è davvero la road-map, al netto delle minacce Ue e della sfrontatezza un po’ strumentale dei britannici, i quali devono rendersi conto di non poter voler la botte piena e la moglie ubriaca in una trattativa simile, 27 contro 1? I negoziati, che dovranno chiudersi entro due anni, avranno un ritmo forsennato. Sei riunioni a settimana, con l’obiettivo dei 27 che è quello di chiudere la prima parte, quella sul divorzio, entro ottobre 2018. Un’impresa, viste le centinaia di settori da regolare per sganciare il Regno Unito dall’Unione: «Ci sarà una complicazione tecnica-economica straordinaria», ha ammesso Paolo Gentiloni. Una volta raggiunto l’accordo, si dovrà attendere il voto del Parlamento europeo entro marzo 2019, con Strasburgo che avrà l’ultima parola. Il presidente dell’assemblea, Antonio Tajani, ha ricordato che «senza un accordo sui cittadini residenti dall’aula non arriverà alcun via libera».

Ora, mettiamo in fila qualche numero. Sul fronte delle esportazioni, il Regno Unito è un mercato rilevante per l’Italia. Nel 2015 il nostro interscambio commerciale è stato pari a 33,1 miliardi di euro, in aumento del 5,9% rispetto al 2014, con un saldo positivo per l’Italia di 11,9 miliardi. Abbiamo esportato verso Londra beni e servizi per 22,5 miliardi, con un incremento del 7,4%. E nei primi quattro mesi del 2016 la crescita è stata ancora dell’1,1% rispetto allo stesso periodo del 2015. Se il Regno Unito fosse rimasto nell’Ue, stando alle previsioni della Sace (Società pubblica che assicura l’export), le esportazioni italiane Oltremanica sarebbero aumentate del 5,5% l’anno nel periodo 2017-19. Con il Brexit, invece, questo flusso rallenterà. In modo limitato nel 2016, con una minore crescita dell’export di 1-2 punti percentuali che equivalgono a 200-500 milioni di euro in meno, ma quest’anno, invece, l’impatto salirebbe, con una contrazione fra il 3 e il 7% dell’export verso il Regno Unito, che significa fra i 600 e i 1.700 milioni di minori incassi per il made in Italy. A pagare il prezzo maggiore saranno la meccanica strumentale e i mezzi di trasporto, mentre si difenderanno bene il tessile e l’abbigliamento e il settore alimentare.

C’è poi la comunità italiana, circa mezzo milione di persone che lavora nel Regno Unito, principalmente a Londra, dai camerieri ai pizzaioli ai traders della City: il governo britannico ha già dato rassicurazioni riguardo al loro futuro lavorativo e di vita, ma, appare ovvio, un irrigidimento nei negoziati potrebbe portare una reazione di Londra, di cui faranno le spese proprio quelle decine di migliaia di persone. Anche in questo caso, un governo autorevole e responsabile dovrebbe soppesare bene cosa trova sul piatto della bilancia, evitando che a condurre le danze siano Paesi meno esposti verso il Regno Unito, vedi la Germania. Guardate questa cartina poi: ci mostra quale sia l’atteggiamento pregiudiziale europeo verso il Brexit. Come vedete, per la Commissione Ue, la Gran Bretagna già fuori dall’Unione oggi, quando mancano ancora due anni di negoziati! Certo, magari è solo un segnale psicologico, ma la dice lunga sull’aria di vendetta che tira.

Ma davvero si arriverà al muro contro muro, al cosiddetto hard Brexit, un qualcosa che danneggerebbe tutti quanti? Ne dubito, proprio perché di fronte al rischio di un non accordo che porti tutti i contenziosi rispetto ai rapporti commerciali tra Ue e Gran Bretagna dinanzi al Wto, penso che in parecchi cominceranno a ragionare con la testa e non con la pancia della volontà di colpirne uno per educarne cento, visto che il timore reale è quello di un contagio da addio all’Unione, prima in Francia e poi in Italia, vero epicentro delle preoccupazioni politiche e dei mercati, stante appunto la situazione politica instabile e la forza dei Cinque Stelle. Sabato si è voluto mandare un messaggio chiaro non tanto e non solo a Theresa May e ai britannici – chi parla di Bregret e di voglia di tornare indietro non conosce molto bene lo spirito anglosassone e va a fare i sondaggi tra la cosiddetta generazione Erasmus che vive a Londra -, bensì ai tanti francesi indecisi che domenica prossima dovranno scegliere se mandare all’Eliseo l’europeista e strafavorito Emmanuel Macron o la fautrice del Frexit, Marine Le Pen.

E questa mia tesi è avvalorata da quanto dichiarato al Corriere della Sera da Marion Maréchal-Le Pen, nipote della candidata alla presidenza, pasionaria anti-Ue e unica deputata del Front National all’Assemblea Nazionale francese. E cosa ha detto, proprio riguardo a una retromarcia sul Frexit palesatasi, almeno a parole, prima del ballottaggio? «La questione della moneta non è il solo problema economico che abbiamo in Francia. Marine Le Pen vuole aspettare le altre elezioni previste in Europa nel 2018, in particolare quelle in Italia, per contare sull’ appoggio dei nostri alleati, che sono già molto forti. Cominceremo allora i negoziati a livello europeo sui lavoratori distaccati, sulla supremazia del diritto nazionale su quello europeo, la possibilità di fare del protezionismo economico e anche sulla questione dell’euro. Alla fine Marine Le Pen tornerà davanti ai francesi per il referendum decisivo: “Questa Ue rinegoziata vi sta bene, o preferite abbandonarla?”. In ogni caso il processo sarà lungo e democratico. Ci vorranno molti mesi, o anni».

E perché tanta attenzione all’Italia? «È un grande Paese e contiamo sul successo elettorale dei nostri alleati come la Lega Nord e magari di altri alleati oggettivi, che hanno la stessa nostra linea sovranista». I Cinque Stelle? «Perché no. Marine Le Pen leader della Francia sarà la promotrice di una rifondazione dell’ Europa. Sulla sua scia, altri leader e altri Paesi come l’ Italia potranno essere nostri partner». Capito ora quella durezza, quella compattezza e quella velocità alla riunione dei capi di Stato e di governo di sabato, di fatto su linee guida unicamente di dialogo iniziale? Diciamolo chiaramente, con quella mossa si è inviato un messaggio pro-Macron e non un messaggio ai britannici, stante il continuo aumento nei sondaggi di Marine Le Pen e l’opaca dichiarazione di Jean-Luc Mélenchon rispetto al voto del secondo turno.

Ora, mi chiedo: al netto del fatto che mancano almeno due anni di negoziati, che l’esito del voto francese potrebbe cambiare e di molto gli equilibri europei, che l’Italia ha fortissimi interessi bilaterali con Londra, non ultimi i nostri connazionali che ci vivono e lavorano, vale davvero la pena comportarsi come degli scendiletto a priori? Perché accettare, per l’ennesima volta, supinamente la linea di Juncker e della Merkel? Perché abbiamo un governo debole, sempre più debole e non legittimato dalle urne. Per questo spero che Matteo Renzi abbia vinto con ottima percentuale e alta affluenza e che gente come Michele Emiliano la faccia finita di fare il Che Guevara sulla pelle altrui, ovvero degli italiani che pagano sempre più caramente questa instabilità e questa campagna elettorale permanente. Per questo arrivo a dire, io che non lo sostengo, che Matteo Renzi con il suo pragmatismo cinico, è un male necessario in questo momento di sconvolgimenti in ambito europeo: lui, l’uomo che venderebbe l’anima al diavolo per il potere, è l’uomo della Provvidenza per non pagare in pieno il conto della disgregazione europea ormai in atto e destinata solo ad accelerare.

Così come Donald Trump è stato un male necessario, perché una nazione come gli Usa, la quale su 320 milioni di abitanti è arrivata nell’ultimo mandato di Barack Obama ad avere oltre 45 milioni di percettori di food stamps, sussidi alimentari, con Hillary Clinton e l’establishment puro al potere sarebbe arrivata alla guerra civile: e non la battle of Los Angeles del 1992, stroncata dall’arrivo dell’esercito dopo giorni di guerriglia nel ghetto nero di South Central ma l’intera America profonda e armata, il Mid-West produttivo e della middle class proletarizzata, pronto a rivoltarsi contro Washington. Trump ha incanalato la rabbia nel voto, rimandando l’inevitabile redde rationem di un Paese ormai apice della disuguaglianza mondiale, almeno tra i Paesi sviluppati.

Attenti alle mosse in ambito europeo, domenica prossima ci si gioca gran parte del futuro. E dichiarare guerra a Londra in nome del ressemblement anti-Le Pen è quanto di più stupido l’Italia possa fare: pensiamo ai nostri interessi, per una volta.