Ci sono dei successi che, paradossalmente, svelano la gravità di una situazione. Ieri è accaduto, nonostante sia passato sotto silenzio. Con una mossa che si pensava impossibile soltanto fino a pochi mesi fa, infatti, la Cina aprirà le sue porte al manzo americano e consentirà alle aziende Usa di portare nel Paese gas naturale (liquefatto), mentre a breve carni di pollo – soltanto cotte – dalla Cina potranno arrivare sul mercato americano. Lo prevede un accordo commerciale raggiunto tra Stati Uniti e Cina, dopo l’incontro tra il presidente americano Donald Trump e il presidente cinese Xi Jinping, lo scorso aprile a Mar-a-lago, in Florida.
Per il segretario al Commercio Usa, Wilbur Ross, è un «risultato erculeo» raggiunto in tempi record. L’accordo commerciale bilaterale tra Stati Uniti e Cina viene presentato dall’amministrazione Usa come un passo significativo per dare slancio all’export degli Stati Uniti oltre che a ridurre la distanza con la seconda economia mondiale. In particolare, l’intesa va a toccare una serie di barriere in campi che vanno dall’agricoltura all’energia fino alle operazioni in Cina da parte di aziende finanziarie americane. Quindi, mentre noi stiamo gingillandoci da giorni sul nuovo asse renano nato dal risultato alle presidenziali francesi, i due colossi del mondo non solo si parlano, ma stringono accordi di fondamentale importanza.
Cosa sta accadendo? Certo, la discussione in atto al G7 economico di Bari, quella sulla Web-tax, è importante, ma temo che chi si occupa di economia applicata ai processi politici stia drammaticamente sottovalutando le condizioni macro proprio di Cina e Usa, nel bene e nel male, i nostri riferimenti sui mercati. E nella notte tra giovedì e venerdì, proprio sui mercati è accaduto qualcosa di inaspettato e senza precedenti. Con la crescita cinese in rallentamento e le condizioni monetarie in contrazione formale e unicamente regolatoria, questo grafico ci mostra come, per la prima volta in assoluto, il mercato obbligazionario cinese – un elefante nella stanza da 1,7 triliardi di dollari – sia andato in inversione, un segnale di avvertimento molto chiaro: qualcosa non sta andando nel verso giusto. Il rendimento della nota a 5 anni, infatti, è salito al 3,71%, al di sopra del 3,68% dell’obbligazione a 10 anni. E, cosa ancora più seria, questo è avvenuto con il decennale che a livello di yield in quei minuti conosceva quasi il suo livello massimo da 25 mesi.
Immediatamente, la Pboc ha silenziato la notizia sui mercati, annunciando l’offerta di alcuni prestiti a medio-lungo termine, ma non sono stati solo i bond cinesi a essere scaricati dal mercato, è stata sell-off generale su tutte le asset classes cinesi. Cosa vuole dirci quell’inversione sulla curva dei rendimenti? Deve davvero farci paura? Alcuni analisti temono di sì. Per Wang Ming, partner alla Shanghai Yaozhi Asset Management Co, un fondo azionario che gestisce assets per un controvalore di 2 miliardi di yuan, c’è poco da ridimensionare l’accaduto o, peggio, minimizzarlo: «Stiamo tutti quanti arrovellandoci per capire cosa sia successo e come, perché un tipo di inversione della curva simile è assolutamente anormale». Per Liu Dongliang, analista senior alla China Merchants Bank, «l’inversione è una forma di mispricing nel mercato obbligazionario. E il fatto che nessuno voglia cogliere l’occasione offerta da un rendimento più alto sulla nota a 5 anni, ci dimostra chiaramente quanto sia depresso lo stato d’animo degli investitori in questo momento». Ma come, ci dicono tutti che il mondo è in ripresa, Wall Street è sui massimi, eppure chi investe è depresso e non si lancia più nella corsa al rendimento? «È davvero difficile predire quando queste sell-off e queste anomalie finiranno, perché il mercato obbligazionario cinese sta unicamente reagendo a una stretta regolatoria e non riflette più i fondamentali economici», sottolinea l’analista.
Ma qual è la realtà? Difficile dirlo, soprattutto quando hai a che fare con persone misteriose come i cinesi: sono solo flussi tecnici quelli che hanno fatto salire il rendimento della carta a 5 anni? La crescita cinese sta rallentando come ci dicono o c’è di peggio sotto il tappeto? Una cosa è certa: in un mondo che si scapicolla a comprare qualsiasi cosa offre un extra-rendimento, visti i magri ritorni garantiti dai tassi di interesse a zero, il fatto che il resto del mondo abbia detto “no, grazie” allo yield offerto dal bond quinquennale cinese può dirci una cosa sola. Ovvero, che questa volta i fondamentali cinesi fanno davvero paura. E quelli statunitensi?
Questo grafico ci mostra come la Fed abbia registrato un drastico calo nelle richieste per carte di credito, prestiti e credito al consumo per l’acquisto di automobili: capirete da soli che non si tratta di un bel segnale macro. E restando alla Fed, c’è qualcosa di molto importante accaduto giovedì che ci fa capire che qualcosa di profondamente sconnesso sta colpendo il mercato: dopo la riunione del Fomc della scorsa settimana, con i tassi rimasti fermi, gli analisti davano la possibilità di un aumento del costo del denaro nella riunione di giugno al 99%, di fatto un segnale di luce verde all’economia americana certificato dal continuo processo di normalizzazione dei tassi. Poi, di colpo, è accaduto questo: non solo l’open interest su opzioni call Eurodollaro è aumentato in modo tale da farci capire che un aumento a giugno è improbabile, ma, soprattutto, l’indicatore principe di stress bancario, lo spread Libor-Ois, si è letteralmente schiantato al suolo verso norme storiche, proprio in contemporanea con quelle scommesse improvvise. Come dire, il mercato profondo ha tirato un clamoroso respiro di sollievo, quando qualcuno ha deciso che la Fed tra un mese, lascerà placidamente i tassi dove sono ancora per un po’. Tanto più che, se verrà bypassato l’appuntamento di giugno, difficilmente si muoverà anche un solo singolo passo prima della riunione di Jackson Hole di fine agosto: tutto ossigeno, sintomo però di un mondo finanziario con il fiato molto corto.
E che siano proprio i fondamentali macro a fare paura ce lo dice l’ultimo studio di Bank of America relativo alle abitudini alimentari degli statunitensi, ovvero la loro propensione a mangiare in casa o fuori, un proxy chiaro del potere d’acquisto e delle dinamiche salariali. Bene, i mitologici millennials, ovvero chi ha tra i 18 e i 35 anni, sulla carta la spina dorsale produttiva del Paese, hanno visto un aumento delle cene in casa, tracciate attraverso gli acquisti al supermarket con carta di credito, del 750% dal 2012 a oggi, mentre l’aumento su base annua rispetto al 2015 è stato del 55%. Capite da soli cosa ci indichi una dinamica simile: al netto della “pompa fiscale” da attivare che Trump ha annunciato l’altro giorno, la depressione economica che attanaglia strati sempre più ampi di società americana è frutto della distorsione di anni di Qe, serviti unicamente a mettere sotto protezione il casinò di Wall Street. E, cosa ancora più preoccupante, pare non ci sia all’orizzonte una cura.
Tutti i numeri che vi ho elencato e riferiti ai due più grandi generatori/inglobatori di credito al mondo, ci dicono una cosa sola: non è possibile normalizzare la politica monetaria a livello globale, pena una sell-off assoluta e devastante. Serve altro Qe, serve altra generazione di credito: e non roba da poco, serve un diluvio. Dinamica, però, che non farà altro che peggiorare lo status attuale: se oggi non possiamo alzare i tassi per troppo debito e leverage accumulati negli anni allegri del Qe globale, come faremo in futuro, se stiamo per caricare sulle spalle del sistema altro debito e leverage per sopravvivere? È una spirale auto-alimentante, è ciò che vi dicevo sarebbe successo da mesi e mesi: quell’inversione sulla curva non è una questione di flussi tecnici, è lo stigma di un sistema insostenibile. E quell’accordo commerciale lampo ci dice che le cose vanno male e, soprattutto, che il tempo stringe nella ricerca di una soluzione tampone. Indovinate chi pagherà i danni?