La settimana scorsa si è aperta con “l’Inno alla Gioia” per l’elezione di Macron e la speranza di una “triade” (Germania, Francia e Italia) alla guida del rilancio dell’economia europea e del riassetto della stessa Unione 3uropea. L’esultanza è durata poco. Già mercoledì Germania e Francia facevano sapere che in questo novello “Trio Lescano”, l’Italia avrebbe stonato se non si fosse rimessa prima in sesto con i conti pubblici, il settore bancario e la produttività. Giovedì, nei locali della Scuola nazionale d’amministrazione, Lorenzo Codogno, per circa dieci anni capo economista del dipartimento del Tesoro del ministero dell’Economia e delle Finanze, ha tuonato: “Preoccupa che i fondi esteri stiano investendo sempre di meno nel nostro debito pubblico. Anche le famiglie stanno abbandonando i titoli di Stato – che non rendono più – per scegliere sempre più spesso i fondi comuni d’investimento. I quali – com’è ovvio che sia – diversificano i loro investimenti”. In parole povere, i risparmi degli italiani sempre più spesso prendono la via dell’estero da dove, peraltro, non stanno più giungendo sufficienti capitali. Una situazione finora nascosta grazie all’allentamento monetario di Francoforte e dunque dagli acquisti di bond governativi da parte della Banca centrale europea che, però, finiranno a breve. Cosa succederà in quel momento? Tutti se lo chiedono, ma nessuno sembra saperlo.
Due cattive notizie da Bruxelles sulla stampa di venerdì mattina: Eurostat è convinta che nei prossimi 18 mesi-2 anni saremo i fanalini di coda in termini di crescita economica, inferiore a quella della stessa Grecia. Inoltre, l’indice di digitalizzazione dell’economia e della società (Desi) pubblicato dalla Commissione europea afferma in modo perentorio che l’Italia non è ancora un Paese digitale. Il nostro Paese si posiziona in fondo alla classifica: venticinquesima sui ventotto paesi Ue, con un punteggio dello 0,4. L’industria italiana, secondo quanto sottolinea l’esecutivo Ue, potrebbe trarre numerosi vantaggi da un uso più diffuso delle soluzioni eBusiness. Ma mancano le competenze digitali: il 37% dei cittadini italiani, un terzo della popolazione, non usa regolarmente internet e il 63% restante compie poche attività complesse online.
In breve, le speranze dell’inizio della settimana sono diventate amare illusioni e sembrano come un pollice verso dell’Europa nei confronti di chi ha governato l’Italia negli ultimi anni. Il nodo non è solo italiano. È utile leggere sull’ultimo numero di The World Economy (Vol. 40, facicolo 5, pp. 836-848), il bel saggio di Dominick Salvatore “Europe’s Growth Crisis: When and How Will it End?” (“La crisi della crescita europea: quando e come finirà?”). In poche lucide e chiarissime pagine, Salvatore esamina come la ripresa dalla crisi finanziaria della fine del primo decennio di questo secolo è stata più che altre recessioni nei Paesi avanzati. Il problema europeo – sostiene – è strutturale in natura ed è iniziato molto prima della crisi finanziaria. A suo avviso, anche con le politiche economiche appropriate sarà difficile accelerare la crescita nel continente vecchio, specialmente nel contesto della Brexit e del rallentamento (pure a ragione del crescente protezionismo) della crescita mondiale in generale.
L’analisi di Salvatore è rafforzata da uno studio quantitativo del Cesifo (il Working Paper No. 6420) sulle riforme strutturali nell’area Ocse. Ne sono autori Baláz Égert e Peter N. Gal, ambedue del servizio studio dell’organizzazione con sede a Parigi. Il documento descrive un nuovo modello che quantizza l’impatto delle riforme strutturali, aggregando gli effetti delle riforme relative al capitale fisico, all’occupazione e alla produttività tramite una funzione di produzione. In base alle riforme già effettuate, il lavoro conclude che cinque anni dopo l’attuazione delle riforme, quelle relative al mercato dei prodotti e dei servizi – proprio il campo in cui l’Italia è stata più lenta e tardiva – sono le più efficaci, specialmente se combinate con riforme del mercato del lavoro – altro settore in cui l’Italia ha fatto poco o nulla. L’orizzonte è in ogni caso cinque-dieci anni, pessima notizia per il prossimo Governo (quale che ne sia la guida): ci attendono “anni difficili”, in cui gli eventuali esiti positivi si avvertiranno verso il 2025.