“Stiamo lavorando molto intensamente, ma non c’è una data prefissata. L’auspicio è che arrivi il via libera dalle autorità europee prima dell’estate”: Fabrizio Viola, amministratore delegato della Banca popolare di Vicenza, o di quel che ne resta, e “in pectore” dell’istituto che dovrebbe nascere dalla fusione tra la sua banca e la Veneto Banca (altro ex-colosso commissariato da Banca d’Italia e Bce perché sull’orlo del crac) le ha viste tutte. Attende, al pari del collega Marco Morelli che lo ha sostituito (paracadutatovi lì da JpMorgan) al vertice del Montepaschi senza peraltro combinare niente di meglio di lui, che entrino in cassa i miliardi di sua competenza del “tesoretto” di 20 stanziati il 21 dicembre scorso dal Parlamento su proposta del governo.
Ma ieri Viola ha frenato: “Non c’è una data”, ha detto, per questa indispensabile ricapitalizzazione della Vicentina a spese dello Stato italiano, di tutti noi contribuenti: “C’è un calendario di lavori – ha aggiunto – e per il momento lavoriamo con l’auspicio che i tempi siano relativamente brevi. L’augurio è che porti a un risultato concreto. Se i tempi rimarranno nell’alveo previsto non ci saranno problemi di continuità aziendale. Le due banche sono in condizione di funzionare in modo adeguato per un certo numero di mesi”.
Avete letto bene? Auguri, auspici, lavoriamo perché siamo nelle condizioni di funzionare per “un certo numero” di mesi… Mamma mia… E adesso un flashback. Cosa disse il governo, dopo lo stanziamento del 21 dicembre scorso? Rileggiamocelo: “È una giornata importante, di svolta”, “di rassicurazione per i risparmiatori e per il futuro”, disse Gentiloni, sottolineando che il decreto si basava sull’autorizzazione “ricevuta dal Parlamento con ampia maggioranza a costituire un fondo di 20 miliardi per intervenire a tutela del risparmio” e mirava a “consolidare il nostro sistema bancario e finanziario”, anche perché “le modalità di questo intervento sono state concordate con le autorità europee”. Ben altri toni.
Sono passati cinque mesi, non è successo niente. C’è un ufficietto, a Bruxelles, nella Direzione generale per la competitività, che fa melina. Che gira e rigira le carte. Che ogni giorno ne chiede una in più. E che per ora questo timbro non l’ha messo: anzi. Come soltanto il Corriere della Sera evidenziava ieri, la responsabile della vigilanza bancaria della Bce, la signora Daniele Nouy ha chiesto maggior rigore nella valutazione dei conti Montepaschi, prima di autorizzare l’effettiva ricapitalizzazione dell’istituto a opera dello Stato, attingendo ai famosi 20 miliardi, e l’ha chiesto per un cavillo: che cioè le norme condivise tra governo italiano e Bruxelles ammettono solo travasi di risorse che coprano ammanchi di capitale, e non perdite “previste e prevedibili”, il che in sostanza taglia fuori i costi per la copertura delle sofferenze, che essendo tali sono perdite prevedibilissime. Un modo per dire “niet” all’uso di quei soldi? Forse non lo è, ma ci somiglia. Di qui la prudenza di Viola, così “stonata” rispetto all’enfasi di Gentiloni della fine del 2016.
E allora quale interpretazione inizia a circolare sinistramente tra gli addetti ai lavori? Una sola. Che dopo la vittoria del filo-tedesco Macron in Francia e della Merkel nelle edizioni regionali tedesche, l’asse Parigi-Berlino a trazione tedesca si sia rinsaldata. Subito dopo il voto francese il ministro delle finanze Schauble si è rimesso a parlare – dopo settimane di “quota periscopica” e silenzio – per riaffermare che non ci saranno sconti sui parametri di Maastricht. E a chi si riferiva, a quali sconti e a quali esaminandi? Risposta ovvia: all’Italia. Scampato il pericolo “populista” in Austria, Olanda e Francia, ora l’Europa – come giustamente sottolineava qualche giorno fa l’editorialista Enrico Cisnetto – “ha solo l’Italia come anello debole, l’unico paese in cui si corre il rischio o che le forze anti-sistema prendano il sopravvento o che l’impasse politica transiti dalle urne fino al punto di rendere impossibile, dopo le elezioni, la formazione di qualunque governo. Cosa, questa, che ci farebbe tornare nel mirino della speculazione finanziaria, anche perché in questi anni i nodi che strangolano la nostra economia sono stati appena allentati, certo non sciolti come andava (e andrebbe) fatto”.
Questo è il punto. Per la Germania, travasare in norme nuove tutta la diffidenza che nutre verso la nostra ondivaga e gracile politica economica è una mossa difficile. Applicare severamente le norme esistenti invece si può fare. E su quale miglior fronte che non le banche? Lo Stato italiano ha pasticciato, al riguardo, quanto ha potuto: cioè più di tutti gli altri. Il governo Monti, che avrebbe potuto chiedere e ottenere di usare il denaro pubblico per raddrizzare i bilanci bancari – come hanno fatto tutti gli altri Paesi europei a man bassa, a cominciare dalla Germania, che ha speso nelle sue banche ben 600 miliardi – non l’ha fatto, per dimostrare all’Europa quant’era bravo. Il governo Renzi ha varato una riforma delle popolari più punitiva che utile e si è avvitato nella faccenda della 4 banche fallite – Etruria, Marche, Chieti e Ferrara – facendovi inoculare 4,5 miliardi dal sistema bancario oggi volatilizzatisi visto che Ubi ha rilevato tre delle good bank a 1 euro e la quarta dovrebbe finire altrettanto gratuitamente all’Ubi. Poi si è infilato nella grottesca attesa dell’inesistente “anchor investor” per il Montepaschi, che non è mai comparso.
Dunque siamo al di sotto di ogni sospetto, e se l’Europa vuole fregarci e commissariarci, come certamente Schauble e Merkel vogliono, anche se affermano talvolta il contrario, ha un’occasione d’oro su questa faccenda dei 20 miliardi.
Fantafinanza? Fantapolitica? Stiamo a vedere. Certo che i sospetti ci sono, e inquietano.