Mea culpa. Quando si sbaglia, ci si cosparge il capo di cenere e si chiede scusa. E io, nel mio articolo di ieri, ho sbagliato: ho scritto che la Siria era sparita dai radar dell’interesse generale, che laggiù non accadeva più niente, stando al disinteresse dei media. Sono bastate poche ore a smentirmi: è accaduto di tutto. Primo, utilizzando filmati satellitari commerciali a partire dal 2014 (ma utilissimi proprio adesso) e una denuncia di Amnesty International di tre mesi fa (corredata da un cartone animato), il Dipartimento di Stato Usa ha sparato fuori il suo ennesimo colpo di teatro: Assad avrebbe fatto costruire un forno crematorio all’interno di una prigione militare e quindi brucerebbe i cadaveri dei prigionieri che fa giustiziare, al ritmo di 50 impiccagioni al giorno.
Prove reali? Nessuna, tanto più che ad ammetterlo è lo stesso funzionario del Dipartimento di Stato che ha ragguagliato la stampa: a suffragio dell’ipotesi, un filmato in cui si vede una parte del tetto del presunto forno con la neve sciolta, sintomo di calore e dell’operatività. Nemmeno l’ispettore Clouseau accetterebbe una cosa simile come riscontro, ma tant’è, non essendo riusciti a provare la resonsabilità di Assad nell’attacco chimico di Idlib, proviamo con qualcos’altro. E il parallelo con Auschwitz subito sparato dal Corriere della Sera, dimostra che ci sono riusciti.
Ma mentre si spargeva cortina fumogena di propaganda, truppe Usa e britanniche entravano in territorio siriano dalla Giordania. La pantomima in Nord Corea serve ad altro, la partita della guerra va giocata in Siria, soprattutto dopo l’accordo a tre fra Russia, Turchia e Iran sulle “zone cuscinetto”, raggiunto due settimane fa ad Astana. E se questo non bastasse, con tempismo straordinario, ecco che riesplode in maniera clamorosa anche il cosiddetto Russiagate, ovvero i presunti i contatti fra lo staff di Donald Trump e funzionari del Cremlino.
A spararlo in prima pagina è il Washington Post e non si tratta di un’accusa da niente, visto che chiama in causa in prima persona il presidente: Donald Trump avrebbe «trasmesso informazioni top secret al ministro degli Esteri russo e al suo ambasciatore». Non in campagna elettorale, ma nel corso dell’incontro avvenuto la settimana scorsa alla Casa Bianca. Quindi, l’accusa investe il presidente in carica, non il candidato come molte altre storie relative alla Putin-connection: di fatto, una strada spianata per l’impeachment, se si troveranno riscontri a quanto raccontato al Washington Post dalle sue fonti, «funzionari attuali e precedenti», cioè sia dell’Amministrazione Trump che di quella guidata da Obama.
Sempre stando al Washington Post, i segreti in questione – highly classified, cioè la categoria più elevata per livello di riservatezza – riguarderebbero lo Stato Islamico: quelle informazioni sarebbero state fornite all’amministrazione Usa da un partner straniero, un governo alleato, che non ha dato agli americani il permesso di divulgarle a terzi. Passando le notizie segrete ai russi, Trump avrebbe quindi «messo in pericolo una fonte d’intelligence cruciale».
Ora, al netto delle smentite arrivate da tutti i livelli della Casa Bianca, la trama sembra perfetta: Assad gioca a fare il novello Hitler, coperto dagli stessi russi con cui Trump sta tramando qualcosa, visto che gli passa dossier riservati. Ma non basta, perché nel gioco entrano anche gli iraniani, al pari dei russi intenzionati a reggere il gioco a Damasco (stranamente fra due giorni a Teheran si vota per le presidenziali) e i nordcoreani, i quali adesso sarebbero dietro addirittura all’attacco hacker che nel weekend ha schiantato i pc di 150 Paesi al mondo. E chi fornisce storicamente tecnologia, non solo nucleare, a Pyongyang? L’Iran.
Nemmeno uno sceneggiatore professionista di Hollywood avrebbe saputo fare meglio, un incastro incredibile di coincidenze fortuite. Quindi, ora ci credete che il Deep State, il grumo di poteri dei corpi intermedi Usa (intelligence, major, media) che denuncio da sempre, non solo esiste ma detta le regole? Ci credete al fatto che Donald Trump è solo un burattino che a breve verrà cacciato via, lasciando però talmente tanto rumore attorno a sé da prendersi la colpa di ciò che accadrà dopo il suo addio a Pennsylvania Avenue? O sono ancora il solito dietrologo-complottista? Il mio errore di valutazione di ieri partiva da un presupposto: non pensavo che la necessità di attivare il moltiplicatore bellico del Pil, il warfare, fosse così urgente per gli Usa, pensavo che ci fosse ancora sufficiente tempo per mantenere in vita la pantomima della crisi quasi da Terza guerra mondiale solo contro Pyongyang. Questi grafici, invece, ci dicono invece che il tempo sta scadendo e che una correzione dei corsi e una nuova recessione sono nell’aria, basti vedere il 10% di taglio della forza lavoro annunciato da un gigante come Ford: occorre da un lato dare ossigeno al comparto bellico-industriale e, dall’altro, dar vita a un’amministrazione d’emergenza, guidata magari dal numero due, Mike Pence, ma saldamente in mano al Pentagono, il quale come vi ho già detto ha deleghe assolute sulle scelte belliche in Siria e Afghanistan.
Ma pensate che i grandi mestatori siano in azione solo Oltreoceano? Sbagliate. Oggi le opposizioni al governo di coalizione austriaco – formate da Fpo, Verdi, Neos e Team Stronach – presenteranno una richiesta congiunta per indire elezioni anticipate e, salvo mosse strategiche dell’ultim’ora, la Övp appoggerà la proposta che verrà quindi approvata. In soldoni, dopo Olanda, Francia, Gran Bretagna e Germania, a ottobre anche l’Austria andrà al voto. Un 2017 da urlo: volete che l’Italia sia da meno, attendendo fino all’anno prossimo? Beh, la guerra in tal senso è pesantemente in atto, come avrete notato. E Bruxelles ha deciso di entrare in tackle scivolato nella situazione, visto che lunedì si è registrato un inusuale colpo di coda dei rigoristi, concentrati in un nuovo attacco all’Italia e ai suoi traballanti conti pubblici. Da un lato la fazione dei duri, capeggiata dal vicepresidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis, dall’altro le colombe, guidate dal presidente Jean-Claude Juncker e dal commissario agli Affari economici Pierre Moscovici. In ballo una nuova manovra correttiva per l’Italia da 4 miliardi e il risanamento per il 2018 da inserire nella Legge di bilancio di ottobre. Teatro dello scontro la riunione dei capi di gabinetto della Commissione europea, dove si è registrato un contrasto tale che Bruxelles ha deciso di rinviare di una settimana il “pacchetto di primavera”, l’insieme delle raccomandazioni economiche per ogni Paese dell’Unione che sarebbe dovuto passare ieri al collegio guidato da Juncker. Invece, i commissari europei – che si riuniscono a Strasburgo in concomitanza con la plenaria dell’Europarlamento – avranno solo una prima discussione, mentre le Country specific recommendations slittano al 24 maggio. Qualcosa in più di un messaggio in codice al nostro Paese.
E attenzione, perché se questo grafico ci mostra l’afflusso di capitali nei mercati equities europei e il picco di esuberanza degli stessi dopo l’elezione di Emmanuel Macron all’Eliseo, proprio in virtù di questa messe di denaro lunedì JP Morgan ha emesso una nota agli investitori dal titolo molto chiaro: It’s time to start shorting Europe again. E immaginate chi sarà preso di mira maggiormente da queste scommesse al ribasso sugli indici Ue, andati in overbought prima per Draghi e per poi per la sconfitta dei populismi? Eppure ieri mattina lo spread era in calo, come mai? Perché è in atto Libropoli, versione editoriale del 1992 a colpi di delegittimazione libraria, tesa ad azzoppare il cavallo di razza, Matteo Renzi, troppo intenzionato a spingere il Paese alle urne in autunno, scelta che non piace né al Quirinale, né al Deep State nostrano.
Strana coincidenza, una delle tante: nell’arco di una settimana due libri, la cui uscita può essere stata rimandata ad hoc a dopo le primarie Pd, attaccano frontalmente Maria Elena Boschi sul tallone d’Achille di Banca Etruria e Matteo Renzi sulla questione Consip legata al padre. Nel primo caso grazie a una confidenza che resterà tale, grazie al silenzio garantito da Fabrizio Ghizzoni (davanti al Parlamento non ci andrà mai, men che meno di fronte alla Commissione d’inchiesta sul sistema bancario che ancora deve nascere), nel secondo grazie alla solita intercettazione finita nelle mani giuste a tempo di record. Misteri del mercato editoriale italiano e di un maggio che temo sarà prodigo di altri colpi di scena.
Ora mi credete un po’ di più quando vi dico che nulla è come appare o sono ancora soltanto un dietrologo?