Quando mercoledì mattina si è manifestata la possibilità che l’opposizione contro Trump potesse salire di tono fino a contemplare l’impeachment è stato immediatamente chiaro che il “mercato” avrebbe reagito male. Una delle poche sicurezze quando si guardano i mercati è che l’incertezza è sempre al primo posto tra le paure degli investitori; non c’è niente di peggio che non aver nessun parametro per “fare i conti” e la reazione è sempre, immancabilmente, quella di vendere. Il tracollo della borsa brasiliana di giovedì è solo un altro esempio.
L’effetto Trump si è fatto sentire con grande forza dal giorno delle elezioni: la scommessa era che il Presidente avrebbe finalmente spinto sull’economia reale, creando posti di lavoro veri, con infrastrutture e dazi, e mettendo nelle tasche dei consumatori americani più soldi con i tagli fiscali; una rottura rispetto alle politiche di immissione di liquidità che hanno premiato la finanza molto più che la classe media spingendo il tasso di disuguaglianza tra poveri e ricchi americani a vette mai viste (la differenza tra i salari del primo 10% e l’ultimo 10% è di oltre cinque volte contro le 3,6 della fine degli anni ‘70 e le 4,8 del 2008). Se l’amministrazione Trump fosse messa nelle condizioni, come sembra, di non potersi più muovere liberamente, si aprirebbe un enorme punto interrogativo sulle prospettive economico-finanziarie degli Stati Uniti e, soprattutto, sulle risposte, inevitabili, alle criticità americane; criticità rese evidenti proprio dalla vittoria di Trump.
La reazione dei mercati europei di mercoledì pomeriggio è altrettanto interessante. Intuitivamente si potrebbe concludere che sia inevitabile che la crisi di un mercato importante come gli Usa abbia un riflesso sulle borse globali e su quelle europee. Questa visione però stride con quanto visto negli ultimi anni, perché le difficoltà di un’area commerciale grande almeno come gli Stati Uniti, l’Europa, hanno inciso in misura molto limitata sulle borse americane. Quello che sta succedendo negli Stati Uniti con Trump è la regola in Europa da almeno sette anni.
La questione di fondo è che è stata l’economia americana a tirare fuori l’economia globale, e quella europea, dalle secche post-Lehman. L’America è stata l’unica area del globo a crescere in modo sostenuto con rischi limitati. “Comprare America” o società europee con esposizione all’America è stata la scommessa più duratura e fruttuoso dei mercati degli ultimi cinque anni. Per noi italiani è facilissimo da capire: Fiat si è salvata non per la ripresa italiana, che non è mai avvenuta, né per quella brasiliana, ma solo e solamente per la forza incredibile del mercato auto americano senza il quale, come nel caso dei competitor francesi, sarebbero stati necessari aumenti capitale statali.
Mentre l’Europa applicava l’austerity, uccidendo nell’ordine il consumatore greco, quello portoghese, quello spagnolo, quello italiano e oggi quello francese, l’America tirava fregandosene di qualsiasi austerity e facendo crescere l’economia. Il rapporto debito su Pil degli Stati Uniti è passato dal 65% del 2007 al 104,% ma non ne ha parlato nessuno perché il Pil continuava a salire; del debito italiano si parla perché il Pil non sale e il Pil ha fatto malissimo perché nel 2012 all’Italia è stata servita la pillola dell’austerity che ha avuto effetti controproducenti. L’Europa, e la Germania in testa, ha potuto perseguire questa politica economica senza scossoni tragici solo perché dall’altra parte dell’Oceano c’erano 300 milioni di americani che continuavano a comprare macchine, televisioni e vestiti perché invece 60 milioni di italiani, o 40 milioni di spagnoli, avevano smesso di farlo. Tutto questo è stato amplificato da una mega-svalutazione dell’euro nei confronti del dollaro che va benissimo fino a che è il prodotto di qualche crisi periferica in Europa che poi puntualmente si sistema e che non si trasforma mai in una rottura vera.
La questione di fondo è che l’Europa non solo va al traino degli Stati Uniti, ma non ha una ricetta o una strategia che possa funzionare di fronte a crisi come quelle del 2008 che si sono trasformate in richieste di austerity folli oppure funzionali a giochi di potere tra stati interni completamente miopi. La crisi economica degli Stati Uniti è immediatamente una crisi mortale per l’Europa, ma non è vero il contrario. Se sparisse il motore della crescita americana e ci fosse una crisi globale l’Europa chiederebbe all’Italia decine di miliardi di euro di tasse addizionali per preservare il deficit innestando un circolo vizioso che oggi dovrebbe essere evidente anche ai maggiori sostenitori dell’euro.
Si può rimproverare Trump di molte cose, certamente non di aver posto il tema dei dazi o quello di aver detto che i partner europei non possono fare viaggiare sulla ripresa americana senza pagare il biglietto prendendone tutti i benefici e giocandoseli sul tavolo da poker dei rapporti interni all’Europa. Se l’America va in crisi, va in crisi nera anche l’Europa perché non ha da offrire nient’altro che l’austerity; l’ipocrisia è aver prosperato su un Paese, gli Usa, che non si è mai neanche sognato un centesimo di austerity. Per questo chi guarda all’Europa oggi deve leggere i giornali americani.