La guerriglia invade di nuovo il centro di Atene, in risposta all’ennesimo, durissimo pacchetto di misure che il Parlamento si accinge a varare per ottenere da Bruxelles la tranche di aiuti necessaria per far fronte ai debiti in scadenza. Ma proprio mentre si celebra l’ennesima misura all’insegna dell’austerità praticata dalla Comunità europea, Mario Draghi, in trasferta a Gerusalemme, ha voluto annunciare che la crisi è alle spalle e che la ripresa nell’Ue è sempre più ampia.  Si abbassa così la percezione del rischio nei Paesi cosiddetti della periferia dell’Europa, quasi a sottolineare il cambio di umore che accompagna questa fase di transizione. In particolare:



-È svanita la grande paura per l’esito del voto dei francesi, ma evaporano anche i dubbi (o le speranze) sulla futura leadership in Germania, visto che a pochi mesi dalle elezioni prende sempre maggior consistenza il vantaggio di Angela Merkel. Nel frattempo. Emmanuel Macron ha varato un governo dominato dalla destra, senza alcuna simpatia per una politica finanziaria più flessibile.



In parallelo, il miglioramento della congiuntura economica ha rovesciato le graduatorie internazionali: recupera posizioni l’Eurozona, già area malata del pianeta con tassi di crescita modesti, disoccupazione alle stelle, compressa tra il martello russo e la Trumponomics e impegnata a limitare i danni della Brexit. Al contrario, le statistiche registrano la ripresa della congiuntura e il miglioramento dell’occupazione mentre l’opinione pubblica premia l’atteggiamento più aggressivo nei confronti del Regno Unito e le pretese sui commerci di Trump.

In questa cornice crescono le pressioni sulla Bce: Nella riunione dell’8 giugno il direttorio della Banca centrale confermerà la politica attuale, ma verranno messe, ufficialmente o meno, le basi del dopo Qe da dicembre in poi, preceduto o meno da una nuova, progressiva riduzione degli acquisti. Salvo un cambio di rotta da parte della Fed che potrebbe modificare dall’esterno il quadro generale, l’Europa si accinge a fare a meno dell’abbondante iniezione di liquidità che ha salvato il Continente da una crisi devastante.



E l’Italia? Il Bel Paese è stato il primo beneficiario del Qe. Sono stati gli acquisti da Francoforte a compensare l’uscita dei capitali internazionali dall’Italia, alimentato dai timori per la crisi delle nostre banche. Intanto, se sarà necessario rispettare i parametri previsti per le finanze pubbliche, servirà una Legge di bilancio feroce, che potrebbe far ricadere il Paese in depressione o, quantomeno, fallire l’aggancio con il treno della ripresa.

Di qui i tentativi più o meno convincenti di proporre nuovi criteri europei (vedi il ricalcolo del Pil potenziale per disporre di più flessibilità). Oppure la trattativa con Bruxelles e Francoforte per aver più spazio e tempo per affrontare il tema dei non performing loans. Finora si tratta di richieste che non hanno avuto un’eco positiva. Ed è difficile che le cose cambino in futuro. 

Eppure l’Italia, superata solo dalla Germania per ammontare del surplus del fabbisogno primario al netto degli interessi, ha buoni titoli per chiedere un trattamento meno draconiano. Purtroppo, però, manca il requisito chiave: la credibilità. Troppo spesso abbiamo firmato con grande leggerezza trattati impegnativi (vedi il bail-in previsto dall’Unione bancaria) per poi chiederne la modifica una volta che ne abbiamo capito la portata.

È questo l’handicap che più di tutti rischia di condizionare le prospettive di un autunno che sarà comunque caldo. Nessuno dubita che, magari sotto il ricatto di una crisi di nuovo acuta, l’Italia sarà comunque in grado di far fronte ai suoi impegni in Europa, così come, nonostante il voto contrario dei greci, ha fatto Atene. 

Ma la volontà politica di restare parte attiva di una comunità in pieno rilancio richiede ben altro. Basterebbe, ad esempio, che l’imprenditoria italiana rispondesse alla richiesta dell’autorità di Vigilanza europea impegnando un miliardo nelle banche venete, Popolare di Vicenza e Veneto Banca. Sarebbe il segnale che i privati, al di là delle chiacchiere, credono alla possibilità di rilancio del Paese. Ben vengano gli investimenti internazionali di Fca, Benetton, Del Vecchio e dei pochi altri player nostrani Ma forse è arrivato in momento di puntare almeno un chip sull’Italia, asset strategico a basso costo. Certo, le ragioni per non fidarsi ci sono ancora tutte. Ma forse pesano di meno. E poi, se non ora quando?