Avevamo cominciato la settimana con l’indicazione di una crescita nei primi tre mesi dell’anno pari allo 0,2 per cento sul trimestre precedente contro lo 0,5 della zona euro e la chiudiamo con la dichiarazione del governatore della Banca centrale europea Mario Draghi per il quale la crisi nell’Unione è alle spalle, le economie nazionali tornano in salute, le imprese respirano a pieni polmoni e dunque non c’è motivo di continuare a pompare ossigeno nel sistema sotto forma di liquidità.
Era quello che la Germania chiedeva da tempo guardandosi bene dal pagare dazio per il forte surplus commerciale, ben oltre la quantità consentita dalle regole di buon vicinato, per accaparrarsi tutte le utilità dell’Europa unita dalla quale ha imparato a prendere di volta in volta quello che le serve trovandosi nella condizione di poterlo fare. L’esatto contrario di quello che capita all’Italia che sul campo del confronto comunitario sembra trovarsi sempre fuorigioco.
Meno liquidità nel sistema vuol dire far risalire i tassi d’interesse. E come tutti i bravi debitori sanno si tratta di una cattiva notizia perché aumenta il costo del denaro che si prende in prestito. Il nostro è un debito di tutto rispetto e, nonostante gli sforzi (verbali) compiuti negli anni, poco o niente siamo riusciti a fare per abbassarlo a un livello accettabile. Confrontato alla ricchezza del Paese, che è diminuita e stenta a risalire, è aumentato addirittura.
Dunque, quello che per Draghi è motivo di soddisfazione per l’Italia può essere motivo di disperazione, perché le poche risorse disponibili serviranno a saldare i conti della nostra spesa invece che finanziare gli investimenti di cui abbiamo un grande bisogno per manutenere e modernizzare le infrastrutture, materiali e immateriali, che reggono la capacità competitiva delle imprese. Senza soldi non si cantano messe e tantomeno si può sfidare la concorrenza internazionale.
E non possiamo nemmeno dire che si tratti di una doccia fredda, di un imprevedibile accidente, perché i segnali che la pacchia monetaria stesse per terminare c’erano tutti. Piuttosto che guardarci negli occhi con senso d’intesa e rimboccarci le maniche per riparare ai danni dell’inerzia abbiamo preferito occuparci d’altro facendo lavorare la lingua più delle braccia e impigliandoci una volta di più nell’estenuante dibattito sulla forma da dare al voto prossimo venturo.
Ora, nessuno mette in dubbio l’importanza di avere una buona legge elettorale (ammesso che la si riesca a fare), ma affrontare un passaggio delicato come l’attuale nel massimo dell’incertezza politica – mentre avremmo bisogno dell’esatto contrario – non è la condizione ideale nemmeno per un Paese come il nostro dove si riesce a ricavare il meglio proprio quando si sta peggio. Troppi vincoli rischiano di fiaccare le più vigorose energie e le volontà più ferme.
E allora? E allora siamo nel classico angolo dal quale dobbiamo toglierci al più presto facendo ricorso alle doti di recupero di cui siamo capaci quando lo vogliamo. E dobbiamo confidare sulle nostre sole forze perché sulla sponda francese non possiamo fare affidamento come l’abboccamento del neoeletto Macron con la sempre verde Merkel suggerisce. È vero, su di noi brilla sempre lo Stellone. Ma questa volta dobbiamo impegnarci a lucidarlo un po’.