I commissari straordinari di Alitalia sono intervenuti in audizione in Parlamento e di fatto hanno dato ragione ai dipendenti dell’azienda che avevano respinto in massa attraverso il referendum l’accordo sindacati-azienda sul costo del lavoro. In realtà, non lo hanno dichiarato esplicitamente, ma due loro scelte confermano questa interpretazione. In primo luogo, non hanno riproposto in alcun modo il tema del contenimento del costo del lavoro. Esso non è più visto come problematico, mentre lo sono altre voci rilevanti del conto economico quali i contratti derivati sul prezzo del carburante e gli alti costi del leasing dei velivoli. In secondo luogo, pur con una necessaria diplomazia, hanno riconosciuto errori nel management uscente.



Chi ha votato No al referendum porta pertanto a casa, almeno temporaneamente, diversi risultati di rilievo: nessun esubero, nessun taglio salariale, nessun aereo a terra. Alitalia vola come prima, “flight as usual”, l’ultimo piano della gestione Etihad è definitivamente mandato al macero e gli amministratori che lo avevano predisposto sono definitivamente usciti dall’azienda. Come nel famoso breve e divertente filmato dei fratelli Lumière “L’arroseur arrosé” gli amministratori licenzianti sono rimasti essi stessi licenziati. Forse la stampa mainstream, che così tanto inchiostro aveva versato per piangere sulla scellerata scelta referendaria dei lavoratori, avrebbe potuto riconoscere questo esito.



Questo non significa ovviamente che i lavoratori abbiano sempre ragione, né che l’abbiano sempre avuta. Ma in questo caso specifico è stato così e bisogna riconoscerlo. Una piccola dimostrazione? Nel 2016 il costo complessivo del lavoro è stato inferiore alle perdite aziendali. Pertanto, anche se tutti i lavoratori di Alitalia avessero lavorato gratis tutto l’anno l’azienda avrebbe comunque chiuso il bilancio in rosso. Nel referendum due terzi dei votanti hanno respinto l’accordo tra forze sindacali e azienda in merito ai sacrifici che il fattore lavoro avrebbe dovuto accollarsi nell’ambito del progetto di ricapitalizzazione della stessa. L’esito atteso era quello opposto: di fronte all’alternativa tra un male minore e uno maggiore, consistente nella possibile liquidazione dell’azienda e nella conseguente messa a rischio di tutti i posti di lavoro, ci si aspettava che sarebbe stato scelto il male minore. Così non è stato in quanto, presumibilmente, i due mali non sono stati interpretati come alternativi, ma come consecutivi: una volta fallito l’ennesimo piano d’impresa, valutato come poco credibile soprattutto nella parte in cui prometteva consistenti incrementi dei ricavi nonostante la riduzione della flotta, il male maggiore si sarebbe comunque palesato. D’altra parte chi potrebbe credere, ad esempio, a un’impresa automobilistica che sostenesse di poter aumentare la produzione di veicoli del 30% chiudendo il 20% delle linee di montaggio?



Un altro fatto curioso del caso Alitalia è che si è molto parlato in questi mesi di lavoratori e di sindacati e mai della dirigenza aziendale. Che, per dirla con parole benevoli, non si può proprio sostenere si sia rivelata molto efficace. Ma quanto costano i vertici di Alitalia? Nel 2015 i vertici aziendali, consiglio di amministrazione e dirigenza, sono costati circa quindici milioni di euro. Eppure Alitalia, anche i vertici precedenti lo avevano sostenuto, non ha futuro nel breve raggio se non si trasforma in vettore low cost. Andiamo allora a vedere un vettore low cost che è emanazione di una compagnia di bandiera, la spagnola Vueling, appartenente come Iberia al gruppo ispano-britannico Iag. In questo gruppo Vueling copre il breve raggio, mentre Iberia si è concentrata sul lungo raggio e sui voli di alimentazione dell’hub di Madrid, esattamente quello che dovrebbe fare Alitalia rispetto a una sua consociata più competitiva nel mercato interno. Vueling ha 110 aerei, trasporta 30 milioni di passeggeri l’anno e ha 4 dirigenti. Alitalia ha 120 aerei, trasporta 22 milioni di passeggeri e ha 57 dirigenti. I suoi vertici sono costati nel 2015 quindici milioni di euro, quelli di Vueling poco più di un milione. Vueling è un vettore low cost con una dirigenza low cost, Alitalia sarebbe voluta diventare low cost, ma conservando una dirigenza high cost.

Che fare ora di Alitalia? L’opinione pubblica, indirizzata dalla stampa mainstream, si divide in due opposti partiti, le cui etichette sono: 1) vendiamola; 2) chiudiamola. Non sembra esservi un terzo partito, quello del “facciamola funzionare”. E forse Alitalia non ha mai funzionato, economicamente parlando, perché negli ultimi decenni questo partito non c’è stato, essendo scomparso alla fine degli anni ‘60, ai tempi dell’autunno caldo. Allora i sindacati avevano torto e i lavoratori pure, inconsapevoli che non può esistere lavoro al di fuori di aziende economicamente solide. Tuttavia se ora l’azienda sarà ceduta, seguendo i dettami del primo partito, il soggetto che la comprerà riterrà di poterla gestire in maniera profittevole; se invece verrà liquidata, seguendo i dettami del secondo partito, i vettori che si espanderanno, occupandone il posto lasciato libero sul mercato, riusciranno a trasportare in maniera profittevole i passeggeri da essa lasciati a terra. Ma nell’uno e nell’altro caso vi sarà qualcuno che farà lo stesso identico mestiere che faceva Alitalia senza perdere soldi. Dunque poteva farlo anche Alitalia agendo allo stesso modo di questi altri.

Non vi è proprio nessuna necessità di chiudere e liquidare Alitalia. Proviamo a rispondere a una domanda? Qual è stato il maggior successo dello Stato imprenditore, dell’intervento pubblico in economia? Pochi credo risponderebbero non pronunciando il nome Eni. Eppure l’Eni, il maggior caso di successo dell’economia italiana del dopoguerra, privata e pubblica, nacque da una liquidazione mancata. Enrico Mattei fu incaricato nell’immediato dopoguerra di porre in liquidazione l’Agip, soluzione che vedeva l’unanimità di tutte le forze politiche, tuttavia non obbedì e fondò l’Eni. Mi si può obiettare che quello fu un caso eccezionale, che Eni godeva di protezioni monopoliste da parte del legislatore, che una vicenda simile non sarebbe ipotizzabile nell’ipercompetitivo mercato del trasporto aereo.

Non è vero e ne ho la dimostrazione: esiste un caso Eni anche nel mondo dell’aviazione. Si chiama Ryanair. All’inizio degli anni ‘90 il vettore irlandese fondato da Tony Ryan era sull’orlo del fallimento e forse sarebbe stato razionale metterlo in liquidazione. Invece Michael O’Leary, assuntane la guida, l’ha trasformata nel maggior caso di successo nella storia dell’aviazione mondiale. Peraltro non ha inventato nulla di nuovo, si è limitato a copiare, migliorare e adattare al contesto europeo il modello della texana Southwest Airlines.

Dunque tutto è possibile, ma in Italia non proprio tutto. È infatti più facile che un cammello emiratino passi per il varco di un metal detector aeroportuale che un manager bravo possa essere messo alla guida di un’impresa pubblica o parapubblica. E se per caso per sbaglio viene preso uno bravo, poi in Italia si fa molto presto a mandarlo via.