Volete capire in che mondo viviamo, quasi senza accorgercene? Nessun media occidentale ha riportato la notizia, ma nel fine settimana, quando il Washington Post aveva lanciato la bomba del contatto russo all’interno della Casa Bianca, facendo capire che si trattasse del genero di Donald Trump, Serghei Lavrov, ministro degli Esteri russo, terminato anch’egli nel tritacarne del cosiddetto Russiagate per la presunta condivisione di notizie dell’intelligence, parlava così: «A volte ho l’impressione che molti media Usa lavorino in base a un principio che era molto comune nell’Unione Sovietica. A quei tempi, la gente scherzava, dicendo che all’interno della Pravda (verità in russo, ndr) non ci fosse alcuna verità e che all’interno di Izvestia (notizia in russo, ndr) non ci fosse alcuna notizia. Ho la netta impressione che molti media statunitensi operino alla stessa maniera».
Insomma, il mondo capovolto. Come vi avevo ampiamente anticipato, il fine settimana ha sancito il grande patto: Donald Trump ha siglato la nascita della cosiddetta “Nato araba” con due finalità, la lotta all’Isis e il contenimento dell’influenza iraniana nell’area. Il primo scopo è palesemente ridicolo e di facciata, lo dimostrano i fatti, ma il secondo è reale e mette d’accordo sia il Pentagono, il vero decisore della politica Usa, che i facoltosi Paesi del Golfo che, soprattutto, Israele, Paese nel quale Donald Trump sta stringendo patti proprio ora, in attesa di fare tappa in Italia.
Di tutto questo vi avevo parlato in tempi non sospetti, così come della contropartita richiesta dagli Usa a Ryad: in totale, si parla di 480 miliardi di dollari di investimenti, tra cui 110 pronta cassa in armamenti. E, ovviamente, prepariamoci a una qualche false flag che veda la mano invisibile di Teheran: può essere in Siria (dove ultimamente compaiono attacchi chimici e forni crematori, ovviamente inesistenti) oppure in Libano oppure ancora in Corea del Nord, dove stranamente il regime ha deciso di sparare un nuovo missile nel Mar del Giappone, proprio mentre Trump parlava a Ryad. È uno schema talmente logoro che ormai è inutile parlarne.
Dopodomani, al meeting dell’Opec di Vienna convocato per decidere sulla prosecuzione dei tagli alla produzione petrolifera, capiremo di più della strategia in atto. Ovvero, i tempi dell’accerchiamento all’Iran e il ruolo della Russia, la quale in un primo tempo potrebbe chiamarsi fuori e spingere la Cina a prendere finalmente una posizione chiara, essendo Teheran uno dei principali partner commerciali di Pechino. È tutto un groviglio di interessi geopolitici, il motto francese tout se tient è sempre e comunque la legge assoluta. Ma attenzione, è di altro che vi voglio parlare. Mentre nel mondo accadeva tutto questo, ecco che in Italia arriva l’accelerazione sul voto anticipato: Silvio Berlusconi, ridotto talmente male da essere finito a pietire il voto di animalisti e vegani, apre alle urne a settembre, purché il Pd gli garantisca una legge elettorale che lo svincoli dall’abbraccio – per lui – mortale di Matteo Salvini. E il capogruppo alla Camera del Pd, Ettore Rosato, non chiude, anzi apre decisamente la porta all’ipotesi di lavoro: «Il voto anticipato non è più un tabù».
Ma cosa diavolo è successo? Giovedì scorso, parlando all’università di Tel Aviv, dove ha ricevuto una laurea honoris causa, Mario Draghi ha spiazzato il mondo, abituato alla sua cautela ontologica, dicendo chiaro e tondo che «la crisi dell’eurozona è ormai alle spalle, ripresa e occupazione sono migliorate, ma, per sostenere la crescita, ora serve accelerare sull’unione bancaria e sulle riforme strutturali nei vari Paesi». In parole povere, un’agenda politica. E quando il banchiere centrale che sta tenendo artificialmente in vita l’eurozona con i suoi acquisti chiede qualcosa, è davvero poco consigliabile opporre un diniego. E poi, Olanda e Francia hanno votato, la Gran Bretagna lo farà a inizio giugno, la Germania il 24 settembre, mentre l’Austria ha deciso la scorsa settimana di andare al voto anticipato il 15 ottobre. Non vi pare manchi qualcuno all’appello del grande reset politico dell’Ue? Già, occorre che anche l’Italia, l’elefante nella stanza a causa del suo debito e delle sue sofferenze bancarie, vada alle urne e faccia uscire un governo chiaro, di larghe intese e blindatissimo, per portare avanti l’agenda Draghi.
E quali conseguenze potremmo subire? Un esempio ci è arrivato, sempre nel fine settimana, dalla Grecia, di fatto il laboratorio delle politiche di austerity Ue. Il Parlamento di Atene, infatti, si appresta a varare norme draconiane sulla confisca di beni non dichiarati: il ministero delle Finanze ha già mosso i suoi segugi a caccia di cassette di sicurezza, il cui contenuto potrà essere confiscato elettronicamente, in base alle deroghe che stanno per essere autorizzate. Ma non solo: in nome della lotta all’evasione fiscale, partirà una caccia serrata anche ad altre securities e immobili, tanto che entro la fine del mese prossimo l’Agenzia delle entrate ellenica metterà all’asta 27 proprietà di debitori dello Stato, nella speranza di racimolare entro la fine dell’anno 2,7 miliardi di euro. Per cosa? Per pagare i creditori, ovviamente, mentre i greci diventano sempre più poveri e l’economia, che aveva vissuto un breve periodo di ripresa, già mostra segnali di peggioramento.
Ma non basta, perché un detonatore di crisi che potrebbe accelerare il processo di reset, sembra pronto ad azionarsi. A fronte delle richieste economiche avanzate dall’Ue per il Brexit, fino a 100 miliardi di euro di compensazioni, sempre nel fine settimana il premier britannico, Theresa May, è stata molto chiara, parlando con il Sunday Telegraph: in caso Bruxelles continuasse a sparare quelle cifre, potremmo abbandonare il negoziato. In perfetta contemporanea con questa minaccia, Barclays pubblicava un report dal titolo Sit tight and keep calm, interamente dedicato ai vari scenari relativi all’abbandono del Regno Unito. E se questo grafico ci dice che due anni di tempo potrebbero non essere sufficienti a completare l’iter di addio all’Ue in maniera compiuta, Barclays si spinge a delineare tre scenari.
Il primo, denominato A crash Brexit, prevede appunto che il Regno Unito lasci l’Ue senza alcun accordo e torni al regime di regole e tariffe del Wto subito dopo la rottura. Le conseguenze economiche sarebbero massime e distruttive, anche se uno scenario simile facilmente si cristallizzerebbe solo nella parte finale del processo: potrebbe essere evitato, certo, da un’estensione delle trattative ma questo richiederebbe il voto unanime dei 27 Paesi. C’è poi lo scenario A soft Brexit, il quale prevede l’addio di Londra all’Ue, ma dopo aver stabilito una partnership avanzata: in base a questa ipotesi, la deviazione dalla status quo sarebbe minima e l’impatto economico limitato, ancorché negativo. Infine, c’è lo scenario denominato A hard Brexit, in base al quale il Regno Unito lascerebbe il mercato unico ma non sarebbe in grado di stabilire una partnership forte con l’Ue. Nonostante un periodo di transizione che potrebbe evitare ripercussioni immediate, l’impatto economico negativo sarà amplificato dal fatto che i business dovranno ricalibrare la loro operatività sostanzialmente e in un breve periodo di tempo. Insomma, una potenziale bomba a orologeria.
Inoltre, attenzione all’effetto tapering. Le parole d Mario Draghi a Tel Aviv, infatti, non hanno solo una chiara valenza politica ma anche economica: se la ripresa si consolida e la crisi è ormai alle spalle, è ora di ridurre le manovre di stimolo. E, guarda caso, dopo l’intervista di Benoit Coeuré alla Reuters, nella quale la colomba apriva a sorpresa a un aumento dei tassi, nel weekend fonti anonime vicine alla Bce dicevano chiaro e tondo che la discussione sul tapering degli acquisti sarà sul tavolo della riunione del Consiglio direttivo dell’Eurotower del prossimo 8 giugno. E chi pagherebbe il prezzo più alto, il termini di spread e quindi di costi per il servizio del debito, in caso dalla conferenza stampa di Draghi emergesse un via libera sostanziale a quell’ipotesi? Ovviamente noi, guarda caso prima dell’estate e più o meno nei giorni in cui, stando alla road map di Matteo Renzi, la legge elettorale dovrebbe essere varata dalle Camere: e come si blocca uno spread fuori controllo (Draghi comprerà ma meno, facendoci prendere un bello spavento)? Ponendo fine all’instabilità politica. Il che vuol dire due cose: o un’operazione stile Monti 2.0, la quale però non sarebbe capita dalla gente che vuole dire la sua nelle urne o, appunto, elezioni anticipate a settembre o inizio ottobre.
E attenzione, perché se l’America ha bisogno di una guerra per riattivare il moltiplicatore bellico del Pil, il warfare e l’Europa deve dar vita al grande reset imposto da Draghi, ecco che questo grafico ci mostra come mercoledì e giovedì scorsi la Bank of Japan sia intervenuta attraverso il suo “special team” per sostenere l’indice Topix di Tokyo, quello che traccia tutte le aziende nazionali, 1700 imprese. Non basta più comprare Etf, di fatto sostenendo direttamente il mercato azionario, ora occorrono anche gli interventi di emergenza per evitare i crolli. Stiamo vivendo il periodo più pericoloso e più importante dal Secondo dopoguerra, rendiamocene conto. E quello che è appena terminato, è stato il fine settimane più importante di tutti. Verrà segnato con la matita rossa. Ma non sul calendario, sui futuri libri di storia.