Tra gli argomenti trattati nell’incontro bilaterale di ieri tra Paolo Gentiloni e Donald Trump c’era anche la parità di genere: sono sollevato. E non scherzo, perché se per caso avessero parlato di qualcosa di serio, allora c’era davvero da correre al più vicino rifugio anti-atomico. La gravità degli atti compiuti dal presidente Usa nella due giorni mediorientale è enorme: di fatto, ha spalancato il vaso di Pandora di una possibile guerra con l’Iran. Diplomatica, magari, ma con il Pentagono in pieno potere e con l’attentato di Manchester che garantisce copertura a qualsiasi azzardo in nome della lotta all’Isis, c’è poco da stare tranquilli. E il rinnovato rapporto tra Usa e Arabia saudita ha immediatamente ringalluzzito gli Stati del Golfo, visto che ieri in Bahrain le forze di sicurezza hanno disperso una manifestazione pacifica in favore di un leader sciita: 1 morto e oltre 100 feriti. Dove sono i difensori dei diritti civili che volevano una Norimberga per Putin, quando ha fatto arrestare Novolny, l’uomo di Soros in Russia? Ma cosa volete, un mondo che affida la lotta all’Isis all’Arabia Saudita e mette nel mirino l’Iran ed Hezbollah, è un mondo al contrario: siamo a Fantasilandia, peccato che si stia scherzando con il fuoco.
E anche l’appeasement totale e quasi parossistico di Donald Trump verso Israele e le sue istanze, tra cui la stroncatura di ogni riconoscimento politico di Hamas, bollata ripetutamente come “organizzazione terroristica”, ci dice che, al netto delle parole e delle buone intenzioni, Donald Trump non lavorerà per la pace in Medio Oriente ma per una pace in Medio Oriente, una pax israeliana che comporta il ruolo egemone dell’Arabia nella sfera sunnita e l’eliminazione dell’Iran dal tavolo di chi prende le decisioni. Oggi a Vienna si riunirà l’Opec e potrebbe essere un banco di prova interessante, anche alla luce di quanto annunciato a Washington martedì, mentre Donald Trump si apprestava a salire sull’Air Force One in direzione Roma.
Già, perché mentre tutta l’attenzione era rivolta a The beast, l’auto mega-corazzata che avrebbe scarrozzato il presidente per la capitale, i funzionari dell’amministrazione Usa rendevano noti i particolari del fantascientifico – e un po’ folle – budget 2018, la loro finanziaria. Il piano di bilancio per il prossimo anno, infatti, è da 4.100 miliardi di dollari e taglierà drasticamente tutti i programmi per i più poveri, dalla sanità ai buoni spesa per i prestiti universitari e i pagamenti delle disabilità. In compenso, il documento propone un aumento delle spese militari del 10%, oltre 2,6 miliardi per la sicurezza dei confine – inclusi 1,6 miliardi per iniziare il muro col Messico – una forte riduzione fiscale e una crescita del Pil del 3%.
Nella nuova struttura di bilancio, guardando al prossimo decennio l’amministrazione prevede tagli da 3.600 miliardi di dollari di spesa pubblica con la riduzione dei fondi destinati al programma sanitario Medicaid per le famiglie a basso reddito, dei food stamp utilizzati per l’assistenza alimentare supplementare e dei sussidi alla disabilità. Ecco l’uomo che combatte contro le elites, ecco l’America great again: come al solito, dollari a pioggia per il comparto bellico industriale e tagli per la classe media proletarizzata dalla crisi. Capite ora la faccia di Papa Francesco nella foto di rito dopo l’incontro in Vaticano? Ma c’è di più, come anticipavo: Donald Trump intende vendere la metà delle riserve petrolifere strategiche Usa, una mossa che martedì ha bloccato il rally iniziato quattro sedute prima dall’oro nero, risalito faticosamente sopra quota 51 dollari al barile. Quanto peserà quella decisione sul vertice Opec di oggi?
Lo scopriremo nel momento stesso in cui la Russia metterà sul tavolo le sue carte, dopo che Mosca ha di fatto dato il via libera alla proposta saudita di prorogare i tagli alla produzione, nella speranza di spingere un po’ al rialzo le quotazioni. Mossa strategica? In parte, ma rozza e di brevissimo respiro, utile soltanto a livello diplomatico per dimostrare a Ryad, una volta di più, che Washington è un alleato affidabile. Anche perché occorre sempre fare i conti con la realtà e, in questo, Trump e i sauditi difettano. Questo grafico ci dimostra, infatti, quale sia l’unico elemento fondamentale per le dinamiche di domanda/offerta per il petrolio a livello globale: le riserve strategiche cinesi. E, come sapete, la Cina ha un rapporto di partnership commerciale e militare fortissimo con quell’Iran che Washington e Ryad hanno messo nel mirino.
Stando a calcoli di JP Morgan dello scorso anno, la creazione giornaliera di riserve di Pechino aveva un ritmo da rotta di collo, essendo passata dalla media di 491mila barili al giorno del 2015 a 1,191 milioni del maggio 2016, l’equivalente di circa il 15% dell’import petrolifero totale cinese. Di più, nello stesso report si faceva notare che di questo passo la Cina stava avvicinandosi pericolosamente al massimo della capacità di stoccaggio stimata, poco più di 500 milioni di barili. Peccato che, nel frattempo, la Cina stia proseguendo il suo programma di costruzione di siti di stoccaggio, il più grande dei quali dovrebbe essere pronto tra la fine di quest’anno e il prossimo: quindi, il taglio Usa potrebbe rappresentare un pannicello caldo o poco più. Non appare un caso, quindi, che in contemporanea con l’annuncio del taglio delle riserve Usa e in attesa del vertice Opec, con mossa inaspettata, Moody’s abbia tagliato il rating proprio della Cina per la prima volta dal 1989, passando ad A1 da Aa3, il tutto a causa dei timori sul rallentamento della crescita economica e sull’aumento del debito governativo proiettato verso il 40% del Pil per il 2018.
L’agenzia di valutazione, in una nota, ha comunicato di aver anche modificato l’outlook da negativo a stabile. Dunque, non solo tagli il rating, ma modifichi al rialzo l’outlook, ma hai anche il coraggio di dare motivazioni macro a una scelta tutta politica: quanto tempo è che vi metto in guardia dalla crescita debitoria insostenibile della Cina e del suo sistema bancario ombra? Come mai Moody’s si sveglia proprio ora? Forse per mandare un segnale, magari relativo anche alla conferenza sulla “Nuova via della seta”, cui gli Usa hanno sdegnosamente opposto la loro formale e ufficiale indifferenza?
La riprova l’avremo dalla decisione al riguardo di Standard&Poor’s, la quale nel febbraio 2016 aveva emesso l’outlook negativo su Pechino, ponendo le basi per il possibile downgrade. Attualmente, il giudizio di S&P’s è un gradino superiore a quelli di Moody’s e Fitch. Immediata è giunta la reazione cinese, la quale ritiene l’approccio usato da Moody’s «pro-ciclico e non appropriato. I punti esaminati, infatti, sovrastimano le difficoltà dell’economia cinese e sottostimano le capacità della Cina di rafforzare le riforme strutturali sul lato dell’offerta e di espandere la domanda nel suo complesso». Sarà vera guerra o solo un mostrare i denti all’avversario? Una cosa è certa, come vedete tutto si incastra. E, purtroppo, appare un tassello nel mosaico anche la conferma del fatto che, parlando giovedì scorso all’università di Tel Aviv, Mario Draghi abbia davvero adottato la dottrina Greenspan, ovvero l’obbligo di mentire quando la situazione diventa davvero seria.
Se infatti il numero uno della Bce aveva parlato di «crisi dell’eurozona finalmente alle spalle e di ripresa diffusa e sostenuta tra i vari Paesi», ieri una smentita è arrivata direttamente dal Financial Stability Review della stessa Bce: ovvero, il bollettino ufficiale dell’Eurotower. Dalla sua lettura, infatti, si evince che la Bce »ha rivisto al rialzo il rischio che sui mercati tornino i timori sulla sostenibilità dei debiti pubblici dell’eurozona». Stando al documento, «la ripresa economica degli ultimi sei mesi ha sostenuto le prospettive riguardo la sostenibilità dei debiti sovrani dell’area euro. Un prolungato periodo di incertezza geopolitica potrebbe rallentare la crescita economica e portare a premi di rischio più elevati. Ciò aumenterebbe i costi di finanziamento e potrebbe innescare timori sulla sostenibilità del debito in alcuni paesi. Gli indicatori di stress sistemico per l’area euro – si legge ancora nel rapporto della Bce- sono rimasti bassi negli ultimi sei mesi. Tuttavia i rischi di un rapido riprezzamento nei mercati globali del reddito fisso restano». Infine, stando all’istituto di Francoforte, «alcuni rischi derivanti da elevati livelli di debito sono presenti anche nel settore privato non finanziario, visto gli elevati livelli di indebitamento del settore corporate non finanziario». Capite perché, alla luce di tutto questo, l’agenda Draghi per la nuova Europa diviene ineluttabile?