Si ripetono i rituali che hanno accompagnato l’epilogo di Mps atto primo. A Milano, la piazza più comoda per radunare tecnici e professionisti, si tengono i consigli di amministrazione delle due banche venete che, come già successo per la banca senese, devono trovare una risposta alle richieste delle autorità di Bruxelles e di Francoforte, che per l’occasione recita il ruolo del poliziotto cattivo. Le analogie tra la situazione della banca toscana e le due ex Popolari non finiscono qui. È facile che per Vicenza e Montebelluna venga seguito uno schema simile a quello che, tra mille problemi, sta vedendo la luce a Siena. È molto probabile, a questo proposito, che il fondo Atlante venga presto affiancato da Fonspa (finora solo advisor di Atlante) e dal fondo Usa Fortress nella gigantesca cartolarizzazione di 27 miliardi lordi di crediti sofferenti. La cordata sarà poi rafforzata dalla cessione di una parte degli npl a Elliott partner (garante dell’operazione di acquisto del Milan di cui detiene le azioni a titolo di pegno), mentre 3,3 miliardi di Gacs, cioè di titoli che godono la garanzia del Tesoro, finiranno sul mercato.
Facile prevedere che la soluzione per Popolare Vicenza e Veneto Banca ricalchi, in piccolo, uno schema del genere. In questo caso si tratta di far fronte a 10 miliardi di sofferenze nette. Per procedere, le banche propongono di apportare nuovo capitale attraverso il contributo di Atlante (938 milioni), il sacrificio dei portatori dei bond subordinati (700 milioni) e l’intervento pubblico (4,7 miliardi). Ma l’operazione, secondo quanto chiedono le autorità europee, potrà scattare solo dopo che i privati avranno contribuito con un altro miliardo. Questo perché una parte delle perdite deriva da sofferenze pregresse che non possono essere coperte, secondo le nuove regole, da aiuti di Stato. Ma nessun privato sembra intenzionato a mettere un altro solo euro nell’impresa. Come ha detto Giuseppe Guzzetti, “abbiamo già dato”. Ora tocca allo Stato nel quadro della cosiddetta ricapitalizzazione precauzionale: in casi eccezionali è possibile far ricorso all’aiuto di Stato purché la banca sia solvibile. Altrimenti, per evitare il bail in sarà necessario ricorrere al trasferimento temporaneo delle attività a una bridge bank o il trasferimento delle attività deteriorate a un veicolo ad hoc, la strada che sembra più praticabile.
È possibile che la ricapitalizzazione precauzionale vada in porto, anche se a Francoforte è forte il partito di chi ritiene ormai segnata la sorte delle due banche che, come confermano i professionisti e i banchieri che hanno seguito i dossier, si trovano in una condizione ben peggiore di quanto immaginato pochi mesi fa. Ma l’eventuale decorso positivo, tutt’altro che scontato, non sarà sufficiente a far rientrare l’allarme che torna a crescere attorno al destino delle banche nostrane in vista della ormai prossima fine del Qe (dicembre 2017) e dell’aumento progressivo dei tassi. Insomma, la percezione dei partners europei è che non ci si trovi di fronte a qualche “mela marcia” da curare con un robusto intervento, bensì a una crisi sistemica: le banche italiane, se non alimentate dagli acquisti della Bce, rischiano di implodere. Solo Mario Draghi, infatti, ha garantito al sistema la liquidità necessaria nell’ultimo anno, ovviando alla fuga silenziosa dei capitali, italiani e stranieri.
In questa cornice, salvo pochi punti di forza del sistema (Intesa e Unicredit in testa), la situazione rischia di peggiorare. Inutile pensare a provvedimenti tampone. L’operazione Atlante è stato l’ultimo tentativo di affrontare l’emergenza con un intervento di sistema. È assai difficile, però, rimediare al gap di capitali con quattrini in arrivo dai mercati: Unicredit è stato un unicum, probabilmente irripetibile. È possibile che, forzando il mercato, si possa trovare una qualche soluzione per i crediti deteriorati che non costringa il sistema ad affrontare fin da subito una mega svalutazione del capitale. Ma i nodi sono destinati comunque a venire al pettine.
L’unica soluzione è un intervento pubblico di vasta portata. Certo, andremmo incontro a una procedura di infrazione. Ma potrebbe essere il minore dei mali se questa decisione, dolorosa, fosse il risultato di una nuova coscienza: non stiamo soffrendo “perché così vuole l’Europa”, ma perché ormai da troppo tempo speriamo che gli altri ci vengano incontro, delegando loro temi di interesse nazionale, compresa la pulizia del mercato del credito e la punizione dei banchieri colpevoli che in galera non ci sono mai stati. Potrebbe essere il primo passo per recuperare (o acquistare) quel ruolo in Europa che ci dovrebbe spettare. Perché l’Italia è un Paese strategico. Purtroppo, però, si rifiuta di esserlo.