Subito dopo l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, Il Sussidiario del 14 novembre sottolineò come si stesse per aprire un dibattito tra le due sponde dell’Atlantico di cui pochi sembrano avere percepito il significato. Il G7 di Taormina ha rappresentato con tutti i suoi limiti una tappa importante di questo dibattito, rimasto sottotono nei primi mesi dell’Amministrazione Trump. Il dibattito riguarda la partnership economica e politica, non solo militare atlantica. Circa cinquanta anni da lo aveva previsto David P. Calleo, intellettuale liberal che ha avuto importanti incarichi al Dipartimento di Stato nella seconda amministrazione Johnson e che viveva tra Washington e l’Italia (Bologna dove insegnava e l’Isola d’Elba, buon ritiro per scrivere i suoi libri), quello delle spese per la difesa comune era il nodo essenziale dei problemi inter-atlantici.



Un suo volume, uscito nel lontano 1970, si intitolava “The Atlantic Fantasy” e sosteneva che, terminata la fase della ricostruzione, l’Europa avrebbe dovuto prendersi carico della difesa comune non per timore del ritorno degli Usa all’isolazionismo, quanto per dar prova di “responsabilità europea”; altrimenti – scriveva Calleo – si sarebbero esaurite non solo la partnership atlantica, ma anche l’integrazione europea, la vera e propria gloria della politica estera americana del dopoguerra.



È di fronte a questa constatazione che ci pone brutalmente il G7 di Taormina. Un “vertice” che , al di là degli aspetti pittoreschi (come non potevano mancare nella Sicilia dei “pupi”?) , ha fatto tornare a casa quasi tutti i leader con una punta di soddisfazione: Trump convinto di avare un po’ ceduto sul commercio internazionale, ma di avere fatto valere la propria agenda in quasi tutti gli altri campi; Gentiloni certo di avere dato una prova di efficienza ed efficacia; Macron che ha dato prova di ottimismo ed entusiasmo; Trudeau che si è presentato come campione della classe media e di una crescita inclusiva; May che incassato il documento sul terrorismo (un vero e proprio successo dopo la tragedia di Manchester); Abe che per la prima volta è riuscito a porre il problema della Corea del Nord nell’agenda dei Sette Grandi. Una che ha voluto “restare nell’ombra” (ha scritto il Corriere della Sera) è Angela Merkel, non perché – come ha commentato il Corriere – insoddisfatta del mancato accordo sul clima (e su tanti altri punti), ma perché, decana e dell’Europa e dei G7, è forse l’unica ad avere compreso come nel magnifico borgo siciliano si fosse chiuso il lungo periodo delle partnership atlantica.



Una partnership costruita su due pilastri, gli Usa e l’Europa in via di integrazione e che avrebbe riguardato la difesa e la promozione dei valori occidentali, non solo con l’alleanza militare, ma con una vera e propria fusione di culture tra le due sponde dell’Atlantico. Da anni, secondo gli americani, l’Europa sta tentando di uscire, con una ripresa debole e fragile, mostra segnali di spappolamento (la Brexit potrebbe essere la prima di altre defezioni), non partecipa adeguatamente alla difesa comune (non solo tradizionale, ma anche nei confronti di nuove insidie, come il terrorismo) nei confronti della società occidentale e via discorrendo.

Secondo gli europei, gli Stati Uniti hanno maggior interesse nei confronti dell’America centrale e meridionale e soprattutto dell’Asia, non sono venuti in soccorso dell’Europa nei momenti peggiori della crisi finanziaria, non hanno fatto nulla per frenare o meglio fermare la Brexit, utilizzano l’alleanza militare per i propri obiettivi specifici.

In breve, non solo non c’è stata la fusione di culture, ma l’Atlantico si è allargato più che mai. Si potrà a tornare al sogno di quella comunità atlantica su due pilastri? Difficile dirlo. Non si tratta certo di “fare passare la nottata della Presidenza Trump” (che pur rappresenta il sentore della maggioranza degli americani). Ci vuole anche e soprattutto un forte atto di “responsabilità europea” su piano globale.