Il direttore di Repubblica, Mario Calabresi, ha preso netta posizione contro l’ipotesi di elezioni anticipate. Un’uscita non del tutto attesa da parte del responsabile del giornale più vicino a Matteo Renzi dalla sua ascesa nel Pd e poi a Palazzo Chigi. Calabresi ha motivato l’opportunità di attendere la scadenza naturale della legislatura (addirittura nel suo termine estremo dell’aprile-maggio 2018) con l’esigenza di lasciare in carica il governo Gentiloni per “finire il lavoro”.



Per la verità l’editoriale indulge molto nel politicamente corretto (l’introduzione del reato di tortura, francamente, non sembra una priorità nel pese del 40% di giovani disoccupato). E quando punta il dito sull’emergenza-debito pubblico è assai dubbio che scelga un argomento decisivo a sfavore delle “elezioni accelerate” desiderate da Renzi, anzi: la finanziaria 2018 – secondo i manuali di scienza politica – sarebbe preferibile fosse varata da un nuovo governo, possibilmente ben legittimato dagli elettori (ciò che è invece dubbio nel quadro attuale) e capace quindi di mosse adeguate e importanti (ad esempio presentare alla Ue un piano taglia-debito imperniato su privatizzazioni e una tantum patrimoniali). Per di più il voto in autunno – sempre sulla carta – permetterebbe all’Italia di restare agganciata al treno elettorale europeo. cioé al ritmo anti-populista impresso dagli elettorati in Olanda e Francia e quasi sicuramente in via di conferma in Germania a settembre.



Il column di Repubblica, d’altronde, non cita mai quella che è invece la motivazione di fondo contro le urne aperte in autunno: la crisi bancaria. Agli inizi di giugno il dissesto delle due Popolari venete è ancora gravemente lontano dall’essere risolto e quello di Mps non è ancora definitivamente tamponato. Delegittimare subito Gentiloni (il premier che ha utilizzato il G7 per confrontarsi direttamente con il cancelliere tedesco Angela Merkel sulla rigidità della Ue sui salvataggi bancari italiani) significa lasciare Popolare di Vicenza e Veneto Banca alla deriva, con probabilità crescenti di collasso definitivo: e non per la rigidità di Bruxelles post-Brexit o di Berlino in campagna elettorale, ma anzitutto perchè a Roma non ci sarebbe più un esecutivo minimamente credibile per affrontare la stretta finale di una trattativa ormai tutta politica.



Padoan in charge come ministro finanziario sia per la crisi bancaria sia per la legge di stabilità 2018 può trasformarsi in un punto di relativa forza laddove – ad esempio – nel probabile Merkel-4 di coalizione potrebbe esserci meno spazio per i falchi come Wolfgang Schauble. Il “non detto” certamente più intrigante è comunque quello che sta consigliando a settori sempre più vasti dell’establishment nazionale di dare meno fiducia a Renzi, attendendo il possibile rientro in Italia di Mario Draghi: questo sì “anticipato” rispetto alla scadenza naturale del 2019.

Draghi potrebbe lasciare il vertice della Bce (probabilmente al tedesco Jens Weidmann) in coincidenza con la fine del Qe dell’euro e l’apertura operativa del cantiere di riforma dell’eurozona. Questa, in teoria, potrebbe risultare una partita di scambio “macropolitico”: un “ordinato” trasferimento di poteri fra Draghi – “richiamato” nel suo paese come premier “ricostruttore dell’eurozona” – e Weidmann potrebbe accompagnarsi con un'”ordinata” soluzione delle crisi bancarie e (forse) con un'”ordinata” impostazione di un programma taglia-debito in un Paese che non è né la Grecia né la Spagna. Un’Italia che Renzi ha dato scarsa prova di saper guidare: anzitutto sil terreno bancario e su quello della finanza pubblica.