Dunque, lunedì nell’arco di mezza giornata, il mondo è passato dal grande disgelo al baratro della guerra nucleare. Come leggere, altrimenti, quanto accaduto il 1 maggio tra Corea del Nord e Stati Uniti? Prima, senza che il mondo avesse minimamente contezza di cambiamenti intercorsi, Donald Trump ha dichiarato che «se ci fossero le condizioni adatte, sarebbe un onore incontrare Kim Yong-un», poi – passato il battito d’ala di un colibrì – ecco che gli Usa mettono in campo prima il drone a pilotaggio remoto Global Hawk, per monitorare le attività missilistiche di Pyongyang, e poi due bombardieri strategici in un’esercitazione congiunta con le aeronautiche di Corea del Sud e Giappone. Detto fatto, la Corea del Nord reagisce alla “provocazione” dicendo che «siamo sull’orlo di una guerra nucleare». Di più, quando in Italia erano le prime ore del mattino di ieri, Pyongyang rendeva nota la sua volontà di procedere in maniera «velocissima» con il suo programma nucleare, mentre Seul confermava che il sistema anti-missile Thaad era già operativo e in grado di intercettare i vettori lanciati da Pyongyang.
Insomma, un delirio. O, forse, una pantomima, come vi dico da quando ha avuto inizio l’escalation tra il regime nordcoreano e l’amministrazione statunitense. Partiamo da un presupposto: Kim Yong-un è un pazzo, non ci vuole uno psichiatra per capirlo, ma la cosa è nota da tempo, come è noto il programma nucleare cui sta lavorando e come sono ormai tradizione consolidata i lanci di missili balistici nordcoreani. Cos’è cambiato nella narrativa per portare non tanto e non solo Washington, ma anche Pechino, a un irrigidimento tale nei confronti del regime nordcoreano? Io metto in fila qualche dato e qualche dubbio, poi valutate voi con la vostra testa.
Primo, all’inizio del 2016, quando il leader nordcoreano era l’argomento principe di tutti i giornali e telegiornali con le sue minacce e i suoi test, il mercato azionario sudcoreano si schiantò di riflesso, poiché il rischio bellico fu prezzato negli equity markets. Una reazione normale: un pazzo minaccia di colpirmi con armi non convenzionali, la Borsa si spaventa. Bene, guardate questo grafico: questa è la situazione odierna del Kospi, l’indice principale della Borsa di Seul. Più la minaccia di una guerra nucleare sale, più aumenta la correlazione con i guadagni dell’indice del Paese che, potenzialmente, potrebbe essere ridotto a un posacenere di macerie entro poche settimane. Vi pare una reazione normale? Certo, viviamo nel grande casinò delle banche centrali e nell’era del bad news is good news, ma qui non parliamo di inflazione bassa da festeggiare, almeno si continuano a comprare obbligazioni: parliamo di minaccia di guerra nucleare. Dubito che, in caso di attacco da parte di Pyongyang, l’intera situazione potrebbe essere risolta da un intervento della Banca centrale sudcoreana, voi che dite?
E poi, come dicevo prima, cosa sta facendo Kim Yong-un di così inedito da far scattare pianificazioni belliche ad americani, cinesi e giapponesi? Le preoccupazioni sono giustificate dalla realtà dei fatti? Ce lo dice questo grafico, frutto del lavoro statistico di Niall McCarthy di Statista, relativo al numero di test missilistici posti in essere negli anni da Pyongyang e al loro livello di efficacia (ovvero di potenziale rischio per i vicini, Seul in testa). L’infografica parla chiaro: al netto di un’accelerazione dell’attività di lancio da parte nordcoreana, si registra anche un parallelo aumento dei fallimenti dei test. Solo quest’anno, la Corea del Nord ha operato 9 lanci di cui 5 risultati falliti, stando alla Nuclear Threat Initiative. Siamo a una percentuale di successo del 55%, la più bassa dal 1984, quando si arrivò al 50%: nel 2016, su 24 test compiuti si registrarono 14 successi e 10 fallimenti.
Perché attaccare ora? Perché proprio adesso arrivare sul baratro di una guerra nucleare? Fermiamoci un attimo. In perfetta contemporanea con le minacce e l’attività diplomatica di lunedì, negli Usa usciva la prima previsione della Fed di Atlanta per il Pil del secondo trimestre, il famoso GDPNow, il tracciatore in tempo reale della crescita economica che spesso e volentieri si rivela più preciso delle stime ufficiali. Ricorderete come la scorsa settimana sia arrivato il dato definitivo per il primo trimestre, con il Pil Usa a +0,7% contro le attese di +1,0% e il dato dei consumi personali al minimo dal 2009. Sapete a quanto stima la crescita Usa nel secondo trimestre di quest’anno la Federal Reserve di Atlanta? Al 4,3%.
Delle due, l’una: o, come accaduto anche nei primi tre mesi dell’anno, in Georgia dovranno rivedere parecchie volte al ribasso quelle stime da qui a giugno, altrimenti qualcosa è già stato fattorizzato nella loro analisi previsionale. Un qualcosa in grado di offrire un effetto moltiplicatore enorme per il Pil, al netto delle spese elettorali – a livello federale – che hanno depresso il dato della crescita del primo trimestre. Forse una guerra, il famoso warfare? Ecco spiegato il dato della Borsa coreana, quindi? Calma. Perché per quanto la guerra faccia bene agli affari e ai mercati, qui stiamo parlando di un conflitto potenzialmente letale e devastante per un’intera area del globo, non di una missione anti-terrorismo a colpi di missili sparati dall’alto nel deserto iracheno o libico: perché allora quell’euforia? Al netto delle variabili impazzite che esistono sempre quando si ha a che fare con gente Kim Yong-un o Donald Trump (uno che che non sa che il Paese che sta guidando ha vissuto una guerra civile per l’abolizione dello schiavismo), la Borsa di Seul sta prezzando – a mio avviso – un cambio di regime a Pyongyang gestito dalla Cina, di fatto un golpe morbido che eliminerà dal tavolo l’opzione nucleare e si tradurrà in un’azione di forza limitata nel dispiegamento di mezzi e nei tempi: Pechino è stanca di avere un vicino ingestibile, ma anche nuclearizzato, e sarebbe pronta a sostituirlo con qualcuno di più gradito e controllabile.
Altra cosa, ancorché legata a questa ipotesi, è la previsione shock del GDPNow per il Pil Usa del secondo trimestre: se la questione coreana sarà risolta da Pechino, quel dato fattorizza solo la fine del potere di Kim Yong-un? No e a confermarcelo ci sarebbe la minaccia nordcoreana di ieri mattina, quando Pyongyang ha ribadito di voler procedere rapidissimamente con il proprio programma nucleare. E chi c’è dietro la tecnologia di quel programma? L’Iran, ovvero il bersaglio numero uno del capo del Pentagono, il generale Mattis, cui la scorsa settimana Donald Trump ha firmato la delega operativa sul campo. Ovvero, decidono i generali le mosse sul terreno in Iraq e Siria, non serve più l’ultima parola della Casa Bianca. E, guarda caso, il 22 maggio in Iran si vota per le presidenziali, un appuntamento di fondamentale importanza, non tanto per la Repubblica islamica quanto per gli interi equilibri dell’area, essendo l’Iran impegnato in prima fila nel conflitto siriano, sia direttamente con l’esercito che attraverso le milizie di Hezbollah. E il fatto che sul finire della scorsa settimana Israele, alleato di ferro Usa e nemico giurato di Teheran, abbia bombardato postazioni siriane proprio per evitare trasferimento di armi a Hezbollah, parla la lingua di un conflitto che diventa ogni giorno più globale, con la Turchia che sta tentando di chiudere contemporaneamente i conti con le milizie curde nel Nord siriano.
Vi sembra folle operare una sorta di false flag a migliaia di chilometri, addirittura in Corea, per ottenere la pistola fumante dell’Iran che, aiutando Pyongyang nel suo programma nucleare, viola i termini dell’accordo sul nucleare, tanto voluto da Obama e tanto avversato da Trump e merita quindi una lezione? Se sì, non avete ancora capito in che mondo stiamo vivendo.