«I tempi in cui potevamo fare pienamente affidamento sugli altri sono passati da un bel pezzo, questo ho capito negli ultimi giorni. Noi europei dobbiamo davvero prendere il nostro destino nelle nostre mani… Certo, possiamo essere buoni partner con gli Usa, possiamo essere buoni partner con il Regno Unito e anche con Paesi più distanti come la Russia, tuttavia dobbiamo sapere che dobbiamo lottare noi stessi per il nostro futuro e il nostro destino di europei». Parole e musica di Angela Merkel nel corso in un discorso tenuto domenica in occasione di una manifestazione politica organizzata dal partito cristiano sociale bavarese (Csu) in una grande birreria-tendone di Monaco di Baviera. Immediatamente scatterebbe la facile ironia del ricordare cosa accade quando i politici tedeschi cominciano a fare sparate politiche nelle birrerie, ma qui da ironizzare e sorridere c’è ben poco. E, per carità, non gioite per le due ragioni che i media stanno instillando come motivazione ufficiale della rottura senza precedenti tra Stato locomotiva dell’Unione e Usa: ovvero, il fatto che Donald Trump avesse già deciso di stracciare l’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici e che la Merkel intenda veramente aprire a una “terza via” europea nell’approccio ai problemi del globo. La Merkel non è affatto libera nella sua decisione, né tantomeno onesta: sta lavorando per un’agenda ben precisa, di cui lei è il perno. 



Più che alla sparata di domenica nei toni e nei contenuti, tocca guardare ad altro. Primo, l’europeismo solidarista e unitario della Merkel è abbastanza ridicolo e ipocrita, visto che è stato proprio il suo potente ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, a stroncare sul nascere ogni tipo di soluzione condivisa a livello fiscale in Europa negli ultimi anni. Difficile, quindi, credere che siano bastati due giorni a Taormina e l’ingombrante presenza di Donald Trump a far cambiare idea alla donna che da 15 anni tira i fili in Europa. Su mandato Usa. C’è stato poi un segnale meno chiaro di quello inviato da Monaco domenica ma, francamente, più potente rispetto a cosa si celi dietro la rottura. Il 25 maggio scorso, infatti, la solitamente precisissima Merkel è arrivata al Vertice atlantico di Bruxelles, quello in cui la Nato ha formalizzato il suo ingresso nella coalizione anti-Isis proprio a guida Usa, all’ultimo momento, quasi trafelata. 



Il perché è presto detto: fino a poche ore prima era un evento alla Porta di Brandeburgo a Berlino per festeggiare i 500 anni della riforma protestante. Direte voi, impegno istituzionale interno. Vero, peccato che l’ospite d’onore a quell’evento fosse Barack Obama, di passaggio in Germania dopo le sue vacanze toscane con la moglie Michelle. I due più che due leader politici che vanno d’accordo, sembravano fidanzati nell’ideologia: Barack Obama ha pubblicamente definito la Merkel «una dei miei leader preferiti nel corso della permanenza alla Casa Bianca», arrivando poi a una sorta di messaggio in codice al mondo rispetto all’amministrazione Trump. Discutendo della scelta di quest’ultima di tagliare i fondi di supporto a diplomazia e programmi internazionali di aiuti, Obama ha sottolineato come quel denaro fosse invece fondamentale per la sicurezza interna degli Usa: «Non possiamo isolarci, non possiamo nasconderci dietro a un muro». Insomma, Barack Obama a Berlino non è parso parlare come un ex presidente, ma come il deus ex machina di qualcosa che sta operando per un ritorno al potere di quelle elites che l’uragano Trump parve aver spazzato via dall’orizzonte dell’establishment Usa (anche quest’ultima narrativa, poi, andrebbe sfatata una volta per tutte, visto che all’interno dell’amministrazione Trump tutti i posti che contano nell’economia sono occupati da ex Wall Street e che la vendita di armi all’Arabia Saudita parla di un paradigma dell’ipocrisia intatto a Washington). Senza scordare, poi, il discorso di Barack Obama a Milano: doveva parlare di innovazione alimentare, ma, di fatto, ha lanciato un manifesto per la resistenza a Trump e a tutti i populismi, invitando Matteo Renzi a creare insieme a lui una rete globale di volontari che crei i nuovi leader del futuro. George Soros ne sarà stato deliziato. 



C’è poi dell’altro, come ricordava ieri il collega Marcello Foa su Il Giornale: ovvero, l’articolo pubblicato il 15 febbraio scorso su La Stampa da uno degli ex consiglieri di Obama, Charles A. Kupchan. E cosa c’era scritto? Due i passaggi salienti: «Mentre gli Stati Uniti e le altre democrazie occidentali sono scosse dalle forze populiste, gli effetti moderatori dei contrappesi istituzionali saranno di importanza cruciale. Il sistema legislativo, i tribunali, i media, l’opinione pubblica e l’attivismo – rappresentano tutti un freno all’autorità esecutiva e devono essere pienamente adoperati». Vi ricorda per caso uno scenario familiare, fra l’inchiesta Russiagate, le mobilitazioni pro-migranti e l’attivismo di leader globalisti come la Merkel contro l’agenda Trump? Ecco poi il secondo passaggio: «Stati Uniti e la Gran Bretagna saranno, almeno temporaneamente, latitanti quando si tratta di difendere l’ordine liberale internazionale, l’Europa continentale dovrà difendere la posizione. Nel momento in cui la coesione interna dell’Unione europea è messa alla prova dallo stesso populismo che occorre sconfiggere, non è buon momento per chiederle di colmare il vuoto lasciato dal disimpegno anglo-americano. Ma almeno per ora, la leadership europea è la migliore speranza per l’internazionalismo liberale». Internazionalismo liberale che significa, in toto, globalismo. Ovvero l’avventura politica cui diedero vita Bill Clinton e Tony Blair con la Third way e che, negli anni, si è tramutata in un’arma di distruzione socio-economico di massa. Da un lato ha fomentato guerre e fondamentalismi con il concetto deviato di esportazione della democrazia e attacco preventivo, dall’altro ha spinto sull’acceleratore della globalizzazione senza controllo con tutti i ricaschi che questa comporta, dal dumping commerciale alla soppressione salariale all’immigrazione di massa come esercito industriale di riserva, per dirla con Karl Marx. 

Charles A. Kupchan lo ha detto chiaro, senza codici o giri di parole: il Deep State europeo – ovvero il potere reale composto da lobby, magistratura e soprattutto media – deve prendere la guida della lotta contro i populismi, deve essere avanguardia perché l’America è troppo spaccata dallo scontro di poteri interno per poter esercitare il ruolo egemone che poi tornerà a competerle. Lo stesso Regno Unito, storico partner Usa nella propagazione dell’agenda globalista, dopo il Brexit è troppo lacerato, quindi incapace di far valere la sua influenza sugli altri partner Ue in chiave globalista. Serve l’Europa e quando dici Europa, dici Germania. Et voilà, la storicamente ultra-cauta e diplomatica Angela Merkel spara un siluro senza precedenti contro il partner occidentale di sempre, riservando una munizione più piccola anche per quel Regno Unito che ora si farà penare sette camicie in sede europea per poter abbandonare l’Unione. 

Caso strano, in due settimane il vantaggio dei Conservatori di Theresa May sul Labour del globalista Jeremy Corbyn, in vista delle elezioni anticipate del prossimo 8 giugno, è sceso da 22 punti ai 5 dell’ultimo sondaggio reso noto sabato scorso. Tutta colpa dell’attentato di Manchester? No, a pesare – stando agli istituti demoscopici – sono stati i marchiani errori contenuti nel Manifesto elettorale dei Tories, visto che gli analisti ritengono che le tre priorità per l’elettore britannico rimangono Brexit, immigrazione e sanità. Sarà, ma il fatto che la May abbia deciso di improntare la sua battaglia contro Corbyn proprio sulla lotta al terrorismo, parla chiaro: l’agenda politica britannica appare eterodiretta, soprattutto dopo che la strage al concerto ha portato alla sospensione della campagna elettorale. I messaggi, quindi, passano tutti dal filtro dei media, non più dagli incontri pubblici o dai comizi: e cosa significhi il filtro dei media nel Paese patria dei tabloid e della finanza, lo capite da soli. 

Insomma, tre messaggi ci arrivano dalle parole di Angela Merkel. Primo, il gioco ormai in America è a carte scoperte: il Deep State ha deciso di andare all-in nella guerra contro l’agenda Trump e utilizza ogni pedina. Ora, però, al netto dell’inefficacia delle strategie utilizzate a livello interno – Russiagate, in primis -, deve essere l’Europa a passare da quinta colonna ad agente operativo della campagna globalista contro i populismi. Angela Merkel ha non solo accettato il ruolo, ma anche suonato la carica. E visto che a luglio il G20 si terrà in Germania, immaginate fin da ora che piega avrà l’agenda dei lavori. Secondo, il silenzio tombale delle istituzioni europee di fronte a un attacco senza precedenti come quello, di fatto una presa in carico del futuro europeo da parte del capo di uno Stato membro, è plastico e chiarissimo: la linea la detta Berlino e Bruxelles si adegua, in attesa che il voto contemporanea per le politiche di Germania e Italia a settembre dia la stura definitiva all’agenda Draghi. Terzo, una spaccatura atlantica di questo livello non può che portare caos sullo scenario internazionale, di per sé già abbastanza agitato e con il fronte libico emerso di colpo nella sua drammaticità. Ma, altrove, non si chiacchiera e non ci si spacca. 

Domenica, infatti, è stato annunciato un accordo fra Russia e Iran che prevede lo scambio diretto fra petrolio iraniano (che la Russia distribuirà in Europa) e beni russi: leggi, armamenti e tecnologia connessa. Di più, l’accordo è stato stipulato simbolicamente in assenza del dollaro come valuta di riferimento. E, contestualmente, è giunta la notizia che le riserve monetarie russe sono risalite sopra quota 400 miliardi di dollari, sintomo che l’economia ha retto l’attacco speculativo del 2013, sta adattandosi al regime di sanzioni occidentali – le quali, ormai, arrecano danni solo ai Paesi che le impongono – e sta cambiando pelle, diversificando il proprio core business dallo storico export di materie prime. Insomma, siamo nel pieno di una trasformazione globale, la quale passerà certamente attraverso eventi traumatici. 

Che sia la Siria, l’Iraq o la Libia il detonatore, poco cambia: un conflitto è ciò che serve per mascherare le mosse sottotraccia dei poteri che contano davvero. E che, come ci dimostra la cronaca, sono così disperati da aver abbandonato la cautela e la segretezza storica del loro agire, spingendo Angela Merkel a un muro contro muro senza precedenti. Stiamo entrando nel vivo, allontaniamoci il prima possibile dalla linea globalista di Berlino. Prima che sia davvero troppo tardi. Ma, in effetti, è inutile lanciare appelli simili: l’inciucio che si sta consumando in queste ore per andare al voto a settembre ci dice che l’agenda globalista Usa e quella Draghi per l’Ue combaciano. Ancora due settimane e scoprirete come e perché. Due sole settimane.