Meno quattro giorni al ballottaggio delle presidenziali francesi e il dado appare non del tutto tratto. Ieri sera si è tenuto l’ultimo confronto pubblico tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen, ma alcuni indicatori già parlano lingue totalmente differenti rispetto all’esito del voto. Un sondaggio interno alla France insoumise, il movimento di Jean-Luc Mélenchon, ha infatti rilevato che appena un terzo intende votare per Macron. D’altronde, lo stesso Mélenchon, che al primo turno ha ottenuto il 19,6%, non si è pronunciato al riguardo. Ha definito «un terribile errore» il voto per Le Pen, ma senza lanciare un appello per il candidato di En Marche!, in nome del classico fronte repubblicano del tutti contro il Front National. Ebbene, è stata condotta un’inchiesta online tra gli oltre 450 mila militanti della France insoumise: il 36,12% opta per la scheda bianca o per annullare il voto, il 29,05% intende astenersi e solo il 34,83% voterà per Macron. Tra i quesiti possibili non c’era l’opzione Le Pen, ma gli istituti di sondaggi rilevano che fino a un quarto di quell’elettorato avrebbe deciso di votare la candidata di destra. Quindi, se l’affluenza sarà bassa, una vittoria di Marine Le Pen non appare affatto impossibile, almeno sulla carta.
Non la pensano così i bookmakers, visto che le quote offerte vedono la vittoria di Emmanuel Macron al 90% di possibilità: direte voi, era così anche con Brexit e Trump e avete ragione. Ma leggendo il dato, il britannico Daily Telegraph si è detto convinto che le agenzie di scommesse abbiano imparato molto dal recente passato e che, quindi, la scommessa sulla Le Pen appare assolutamente suicida. Vedremo l’andamento a ridosso del voto, ma c’è un altro indicatore che parla chiaro in favore di Macron all’Eliseo e ce lo mostra questo grafico, riferito al Sentix Index, il quale misura il numero di investitori che pensano che almeno una nazione lascerà l’eurozona nei prossimi 12 mesi. In aprile, questo misuratore era solo al 13,6% contro il 18,7% di marzo e il 48,5% della crisi del debito greco del giugno 2015. Tanto per mettere in prospettiva, il record fu toccato a quota 73% nel 2012.
Entrando nello specifico, il sub-indice per la Francia, basato su sondaggi che chiedono alla gente se Parigi lascerà l’eurozona, ad aprile è sceso al 3,5% contro l’8,4% di febbraio. Lo studio demoscopico, condotto tra 1.055 investitori istituzionali e retail, conferma di fatto la fiducia nella vittoria di Emmanuel Macron, percepito come filo-europista, liberista e moderato rispetto a una Le Pen che mette in discussione la permanenza stessa della Francia nell’euro e nell’Ue. E chi guida la classifica del Sentix Index, ovvero chi è visto come il potenziale candidato ad abbandonare l’eurozona? Ai primi due posti ci sono Grecia e Italia, rispettivamente con l’8,7% e il 7,4% di probabilità. E se la percentuale di Atene appare chiaramente in discesa, visto l’ennesimo accordo sul debito che sarebbe stato raggiunto l’altro giorno (ovvero a sondaggio già compiuto), cosa garantisce all’Italia il poco edificante secondo posto della classifica? L’instabilità politica, timore che i mercati percepiscono molto più del nostro debito monstre o delle criticità del sistema bancario.
E, in effetti, il ragionamento regge: i problemi in Italia ci sono, ma sono ormai cronicizzati, ci conviviamo da anni e anni, mentre un crollo totale della credibilità della classe dirigente potrebbe far saltare il tappo. Insomma, la fiducia degli investitori, questa volta, potrebbe sparire del tutto, riprezzando immediatamente le nostre criticità. E che qualcosa si stia già muovendo, ce lo dimostra questo grafico, il quale ci mostra il decouple occorso tra mercato azionario e obbligazionario sovrano del nostro Paese. Insomma, il mercato equity sembra dirci che tutto va bene e che anche l’ennesima crisi di Alitalia si risolverà senza i drammatici effetti depressivi evocati dal ministro Calenda, mentre i cosiddetti bond vigilantes fanno notare come lo spread tra i nostri Btp e gli Oat francesi si stia allargando, questo nonostante l’incertezza – almeno formale – che attanaglia Parigi alla vigilia del voto più importante.
Insomma, paradossalmente i mercati hanno già bypassato la corsa all’Eliseo come criticità e sono focalizzati sull’Italia: certo, Matteo Renzi è tornato saldamente alla guida del Pd e il Ftse Mib flirta con i massimi a 15 mesi, ma i nostri titoli di Stato ci dicono che la battaglia politica potrebbe essere decisamente in salita. E con l’ipotesi di elezioni prima della scadenza naturale della legislatura, nelle sale trading la scommessa sul nostro Paese ha già due nomi: Italeave o Romein? Ovviamente, a mantenere vivi i timori per una dipartita dell’Italia dall’eurozona è l’ipotesi di vittoria del Movimento 5 Stelle alla prossima tornata elettorale, il cosiddetto spettro del populismo.
A evocare per primo come questa deriva politica possa impattare pesantemente sui mercati fu, lo scorso gennaio a Davos, Ray Dalio di Bridgewater, il quale non ebbe dubbi: «Il populismo è il più importante argomento a livello globale, poiché coincide con una definizione nazionalista che ci porterà a vedere più protezionismo e la marcia indietro del globalismo. Il populismo mi terrorizza». Addirittura, lo stesso Dalio diede vita a un report di 60 pagine dal titolo Populism: The Phenomenon, nel quale, oltre a descrivere le varie ondate populiste susseguitesi nella storia del mondo, metteva nero su bianco le sue preoccupazioni riguardo le conseguenze economiche di un’amministrazione Trump. Ecco le sue parole: «Il populismo non è ben capito perché, nelle scorse decadi, è stato poco frequente nelle nazioni emergenti (Chavez in Venezuela, Duterte nelle Filippine) e virtualmente inesistente nelle nazioni sviluppate. È uno di quei fenomeni che arriva una volta nella vita come un’enorme onda – al pari di pandemie, depressioni o guerre. L’ultima volta che è esistito al mondo sotto forma di forza imperante è stato negli anni Trenta, quando molte nazioni diventarono populiste. Nell’ultimo anno, è emerso ancora come una forza maggiore». Insomma, un quadro inquietante.
Ma è poi vero? C’è da avere così paura del populismo? E, soprattutto, il populismo è il nemico numero uno dei mercati? No e ce lo dice uno studio della money manager di Neon Liberty Capital Management, Satyen Mehta, la quale – numeri alla mano – smentisce le apocalittiche convinzioni di Dalio, visto che come ci mostra questo grafico, i regimi caratterizzati come populisti hanno storicamente innescato rally azionari e garantito returns anche superiore al 150% in tre anni. E come mai? Ce lo spiega Mehta: «Mentre la saggezza convenzionale ci suggerisce che gli investitori dovrebbero essere spaventati dai leader populisti, i mercati equity sono molto più resistenti, soprattutto perché un trend storico ci mostra che le politiche poi messe in atto sono più benigne e meno intransigenti di quelle che inizialmente si temevano». E se lo studio prende in esame molti leader, da Luiz Inacio Lula da Silva in Brasile a Vladimir Putin in Russia, così come Erdogan in Turchia e poi i governi di Egitto, India e Polonia, emerge chiaro un dato: i populismi di sinistra sono particolarmente favorevoli ai mercati azionari, producendo returns fino al 221% in tre anni dall’insediamento, contro “soltanto” il 121% garantito da governi populisti di destra, stando a dati compilati da Bloomberg.
Sul lungo termine la correlazione diventa più complicata a livello numerico, ma lo studio conferma che, dove sono stati disponibili i dati precisi, gli investitori in nazioni con governi populisti hanno visto returns del 355% sui 5 anni e del 442% nei 10 anni. Certo, quei governi normalmente prendono piede e potere in momenti di crisi, quindi con i mercati sui minimi e questo innesca il classico rally da buy the dip, ad esempio Lula nel 2003 quando arrivò al potere dopo l’esplosione della bolla tech, ma Donald Trump, di converso, è arrivato alla Casa Bianca con Wall Street ai massimi di sempre. E li sta facendo proseguire. Non sarà tutto un gioco delle parti e di specchi, dalla Francia all’Italia fino agli Usa del populismo al potere?