Tutto fermo, tutto come da copione. Ma con un’assenza che fa pensare. Mercoledì la Fed ha mantenuto invariati i tassi di interesse, in una forchetta fra lo 0,75% e l’1,00%, al termine della riunione del suo comitato monetario. L’ultima volta che la Banca centrale Usa ha ritoccato al rialzo di un quarto di punto il costo del denaro è stato in marzo, in quello che è stato il primo aumento del 2017 e il terzo dal 2006. La scelta era attesa, soprattutto dopo il deludente dato del Pil statunitense del primo trimestre di quest’anno, un misero +0,7% contro le attese dell’1%. «La politica monetaria resta accomodante e l’economia garantisce aumenti dei tassi graduali», metteva in evidenza la Fed nel comunicato diffuso al termine della due giorni di riunione, sottolineando che «il rallentamento della crescita nel primo trimestre è transitorio e che l’inflazione nell’arco di 12 mesi girerà intorno al 2%».
Cosa, quindi, farebbe riflettere? Il fatto che dopo l’annuncio, non si sia tenuta la consueta conferenza stampa da parte della presidentessa, Janet Yellen: è stato letto soltanto un comunicato. Perché? Forse perché una domanda scomoda, questa volta, avrebbe davvero potuto mettere in crisi la Yellen, aprendo potenziali fronti di tensione sul mercato: al netto del dato del Pil e dei consumi personali, i segnali che l’economia Usa sia in pericolosa china di crisi aumentano di giorno in giorno. Così come il fantasma della stagflazione, visto che il dato dell’inflazione che comprende cibo ed energia è già attorno al 5% in varie aree del Paese, il tutto al netto di un dato della crescita che si spinge pericolosamente al ribasso in area zero virgola. Come ricorderete, sono mesi ormai che vi dico come il segnalatore di crisi maggiore sia il comparto automobilistico Usa, quello che grazie agli incentivi federali di Obama ha mantenuto in vita il settore industriale statunitense negli anni post-Lehman: eccesso di produzione da mal-investment, scorte in aumento vertiginoso rispetto alle vendite e, non ultimo, abuso del credito al consumo per la vendita di veicoli a una platea sempre maggiore di clientela con rating di credito subprime, le criticità principali. Ed ecco che la bolla, dopo essersi espansa a dimisura, ora è scoppiata.
Carmaggedon, questo il nome che analisti e investitori hanno scelto per descrivere quanto sta accadendo Oltreoceano, ovvero quanto ci mostra il primo grafico qui sotto: ad aprile il dato delle vendite si è fermato a 16,8 milioni contro le attese di 17,1, registrando inoltre una variazione su base annua che è la peggiore dal 2011. Il tutto, mentre accade questo in contemporanea (secondo grafico): i giorni in cui un veicolo resta fermo sotto forma di “scorta” dal concessionario prima di essere venduto sono ai massimi da anni. E la situazione è tale che, intervistata da Bloomberg, Michelle Krebs, analista senior per la Cox Automotive ha detto chiaro e tondo che «la situazione che stiamo vivendo e vedendo non è affatto quella che vede Donald Trump. Non vediamo affatto la costruzione di nuovi stabilimenti negli Usa o l’incremento della produzione. La verità è che abbiamo sorpassato il picco delle vendite e oggi assistiamo al calo della produzione: quest’anno il periodo di fermo degli stabilimenti, tipicamente estivo, non sarà solo uno. Ne prevedo almeno 3 o 4, la produzione non va di pari passo con vendite e scorte».
Certo, probabilmente Donald Trump vedrà il lato positivo della cosa – ovvero che almeno la produzione non sta andando in Messico -, ma questo segnale è gravissimo: l’unico settore che operava da driver all’industria Usa è entrato in piena saturazione da mal-investment, ovvero ha sfruttato in maniera irresponsabile il periodo di boom garantito dai tassi a zero della Fed con la sovra-produzione e ora sta per prepararsi al bust, l’esplosione della bolla. E a confermarlo è il gigante del settore, quella General Motors che ha visto i giorni di attesa per la vendita di un veicolo salire a 100 dai 98 di fine marzo e dai soli 71 dell’aprile 2016: in base ai criteri valutativi degli analisti del settore, un periodo di scorta tra i 60-70 giorni è normale, 100 no. Proprio per nulla. Ovviamente il management di GM ha rigettato immediatamente tutte le critiche, dicendo che un aumento della scorte è normale e che, in qualche modo, «riflette forti vendite», come da comunicato stampa. Sarà anche vero, ma non ci crede molto Nick Bunkley di Automotive News, il quale ha fatto notare come 935.758 unità invendute che prendono polvere nei piazzali dei rivenditori significa il dato più alto a livello di scorte da 9 anni e mezzo, ovvero da novembre 2007: «Un mese prima che la recessione iniziasse ufficialmente», chiosava Bunkley.
Ed esattamente come il management di GM che ha preferito nascondersi dietro un delirante comunicato stampa, forse anche la Yellen mercoledì ha optato per evitare le domande dei giornalisti, perché parlare di crescita e percorso d rialzo dei tassi a fronte di dati industriali simili è davvero opera improba. Ma c’è dell’altro e arriva da uno dei settori che dovrebbe fungere da conferma vivente dello stato di salute del sistema: il mercato azionario. Guardate questo grafico, il quale ci mostra come i manager e gli insiders delle grandi aziende Usa stiano scaricando i titoli azionari dei gruppi per cui lavorano come se non ci fosse un domani: cosa sanno che noi non sappiamo?
Stando a dati raccolti ed elaborati da Trim Tabs, nel mese di marzo le vendite hanno totalizzato un controvalore di 10 miliardi di dollari. Eppure i tre indici di Wall Street nei mesi scorsi hanno toccato e sfondato nuovi massimi: chi compra? Il parco buoi, ovviamente, ovvero la clientela retail cui banche e fondi stanno scaricando allegramente ciò che hanno in portafoglio prima di scottarsi le dita. Il tutto in un mercato che sta conoscendo le valutazioni più assurde dalla bolla tech del 2000: se chi conosce bene i conti e le attività di un’azienda scarica i titoli e prende beneficio, perché gli investitori dovrebbero continuare a comprare ai prezzi – sopravvalutati – correnti? Capite da soli che il fatto che dirigenti e dipendenti non riconoscano valore nelle loro aziende sia un segnale davvero negativo per il mercato, tanto più che non si tratta di un trend recentissimo, visto che le vendite di massa da parte degli insiders sono partite a inizio febbraio.
L’analista di Vicker Weekly, David Coleman, ha così sintetizzato quanto stava accadendo: «L’insider selling è schizzato un’altra volta e questa volta a livelli che abbiamo visto raramente in precedenza». Insomma, chi sa non solo vende, ma lo fa anche in fretta, il prima possibile. Perché? Una risposta potrebbe arrivarci dal dato reso noto ieri da Bloomberg relativo all’architrave del sistema bancario ombra cinese, i Wealth Management Products (Wmp), prodotti finanziari molto rischiosi che però in Cina vengono utilizzati con enorme facilità da clientela retail senza alcuna preparazione. Bene, ad aprile il numero di Wmp emessi dalle banche è calato del 15% su base mensile, scendendo da 11.823 a 10.038, stando a dati di Wind Info. Il calo è diretta conseguenza dell’irrigidimento regolatorio rispetto alla valutazione macro-prudenziale e al business interbancario, ma sono i numeri a far paura: tra le prime dieci banche per numero di Wmp venduti, nove hanno registrato un calo aprile su marzo, tra cui Agricultural Bank letteralmente collassata del 48%, mentre solo Minsheng Bank ha emesso di più. E questo sta già pesando sull’economia cinese, con tutti gli indici PMI in calo: la crescita del settore dei servizi è ai minimi da 11 mesi, mentre il Caixin China General Services Business Activity Index è calato per il quarto mese di fila a 51.5 in aprile, giù dal 52.2 di marzo e ai minimi dal maggio 2016, stando a dati di IHS Markit.
Ecco come ieri Kyle Bass di Hayman Capital, parlando al meeting annuale della Milken Institute Global Conference a Beverly Hills, ha sintetizzato la situazione, lanciando l’allarme: «Ciò che vedi quando la liquidità si sta prosciugando è gente che comincia a cadere… E questo è l’inizio della crisi del credito cinese». E questo grafico ci mostra come in effetti l’impulso di credito cinese a livello globale sia ora in modalità reverse. Quindi, la questione non è se la Cina rallenta, ma quanto velocemente lo farà e un buon indicatore sarà il prezzo delle materie prime, collassato letteralmente dopo il dato sui Wmp cinesi, nonostante la retorica di tutte le Banche centrali e del Fmi riguardo la ripresa sostenuta in corso. Capite perché Janet Yellen non ha tenuto la conferenza stampa e ha preferito cavarsela con un comunicato? Alla luce di tutto questo, lo avrei fatto anch’io.