Noto con piacere che ormai quasi ovunque, compreso su queste pagine, i migranti non sono più unicamente risorse, le Ong non sono più l’impersonificazione del bene e la sicurezza non più un retaggio fascistoide. Addirittura, si arriva a chiedere conto dell’incontro tra George Soros e Paolo Gentiloni a palazzo Chigi, senza per questo essere immediatamente bollato di cospirazionismo ed esposto al pubblico ludibrio. Meglio tardi che mai. Per tutti. D’altronde, se si guardasse la realtà in faccia per quella che è, emergerebbero subito criticità e limiti. Vi faccio un esempio parlando del caso economico del momento, ovvero il rinnovato crollo del prezzo del petrolio sotto quota 50 dollari al barile che sembra mettere in ansia mercati e governi. Bene, come testimonia questo articolo, vi avevo detto con largo anticipo sull’attualità che il famoso taglio della produzione dell’Opec non sarebbe servito a niente e che, stante il combinato di saturazione del mercato e instabilità geopolitica, il prezzo del petrolio non sarebbe salito, come invece preventivato dai soloni del Sole24Ore, ad esempio.
Ieri però a lanciare l’allarme ci ha pensato nientemeno che il Wall Street Journal, il quale arrivava addirittura a paventare un ulteriore crollo generalizzato dei prezzi in assenza di ulteriori tagli. Se invece i tagli alla produzione saranno confermati in occasione dell’incontro tra l’Opec e altri produttori fissato per il 25 maggio, il petrolio arriverà a 60 dollari al barile entro la fine dell’anno. Stando a un’indagine del Wall Street Journal che ha coinvolto 14 banche d’investimento a fine aprile, quest’anno il Brent toccherà una media di 57 dollari al barile, raggiungendo i 60 dollari nel quarto trimestre; scenario sostanzialmente invariato rispetto al precedente rilevamento. Inoltre, le banche pronosticano che quest’anno il West Texas Intermediate avrà un livello medio di 55 dollari al barile, mentre l’anno prossimo il Brent salirà a una media di 62 dollari al barile e 65 dollari al barile nel 2019. «Il mercato sembra avere già incorporato nei prezzi un accordo su ulteriori tagli alla produzione», riferisce Warren Patterson, commodity strategist di Ing Bank, a detta del quale «in assenza di una simile intesa non è escluso un aggressivo sell-off».
Ora, fermi tutti. Certi cali del prezzo sono fisiologici in un mondo saturato dall’offerta e sostanzialmente con la crescita economica a zero virgola. Inoltre, a Wall Street si dimenticano sempre di autocitarsi come parte integrante del problema, visto che il movimento del prezzo paga anche lo scotto a una finanziarizzazione folle di quella commodity: il prezzo, di fatto, scosta decine di volte al giorno in base agli algoritmi dei futures, quindi alla necessità di aprire o chiudere posizioni. Il problema sostanziale è che quelle posizioni non vengono mai chiuse, al 95% la data di scadenza si tramuta in un roll-over: il perché è presto detto, è solo speculazione. La soluzione? Semplice, obbligo di consegna dei barili, così si vede chi specula sui futures e chi realmente opera sul petrolio. Ma siccome chi dovesse solo proporre una cosa simile farebbe la fine di Enrico Mattei in una settimana, veniamo agli scenari.
Più precisamente a cosa accadrà una settimana prima del meeting dell’Opec: il 19 maggio in Iran si vota per le presidenziali, in un quadro quantomai incerto. E perché questo conta? Ve lo faccio dire da Christof Ruhel, ex capo economista a Bp e ora capo del centro ricerche dell’Abu Dhabi Investment Authority: «Se stiamo parlando di vincitori rispetto ai tagli operati dall’Opec, allora parliamo di Iraq e Iran». E chi è il perdente? L’Arabia Saudita, la quale pensava di poter tamponare l’ovvia perdita di quota di mercato legata ai tagli della produzione con un aumento progressivo dei prezzi: nei primi 5 mesi dall’accordo, nessun risultato all’orizzonte. Se non quello di aumentare la quota di mercato di Teheran, bravissima nello sfruttare il miglioramento delle condizioni di produzione permessogli dalla fine delle sanzioni a seguito dell’Accordo sul nucleare. Ryad, in base all’accordo, ha tagliato la produzione di 486mila barili al giorno per un totale concesso di estrazione di 10,058 milioni di barili, mentre l’Iran ha beneficiato di un aumento che ha portato l’output giornaliero a 3,797 milioni di barili.
Ora l’Arabia intende chiedere a Teheran un taglio della sua produzione, ma la risposta iraniana è già stata un secco “no”: se al vertice del 25 maggio non si dovesse arrivare a una sorta di accordo, allora il rischio di una revisione al ribasso si farebbe serio. Ma si sa, nulla accade per caso. E, ad esempio, da qui al 19 maggio, quando l’Iran andrà alle urne, potrebbe saltare fuori la prova delle forniture di tecnologia nucleare da parte di Teheran alla Corea del Nord, magicamente sparita dalle cronache dopo che per giorni la terza guerra mondiale era data a un passo.
In compenso, quattro giorni fa, mentre Trump e Putin parlavano direttamente per la prima volta, ancorché solo al telefono, il Senato Usa, nel silenzio generale dei media, congelava la bozza di legge per le sanzioni contro la Russia, ma, al contrario, dava corsia prioritaria a quella contro Teheran. Ebbene sì, il Comitato per le relazioni estere, per bocca del suo presidente, Bob Corker, ha deciso che Mosca non è più un pericolo. In compenso, l’Iran subirà le sanzioni Usa per lo sviluppo di missili balistici, il supporto a gruppi terroristici e la violazione di diritti umani. Non vi suona nessuna campanella, essendo l’Iran il bersaglio numero uno nella mente del capo del Pentagono, generale Mattis e, contemporaneamente, il primo concorrente dell’Arabia Saudita in campo petrolifero?
E quale sarà il primo Paese a essere interessato dal tour presidenziale di Donald Trump? L’Arabia Saudita, verso la quale si muoverà il 19 maggio partendo da Washington per poi spostarsi in Israele, dunque in Italia per il G7 e poi a Bruxelles per il vertice Nato. Insomma, Trump sarà a Ryad a urne iraniane già chiuse e con il risultato noto, dopodiché andrà in Israele, Paese che ha un conto aperto con Teheran per l’attività di Hezbollah. Tre Paesi, un unico nemico. E giova ricordare che se in sede Opec anche solo un affiliato respingesse la proroga proposta da Ryad, il resto del gruppo rivedrebbe rapidamente la propria strategia per aumentare l’output, con ovvie e drammatiche implicazioni per i prezzi. E anche se l’Opec trovasse un consenso, l’accordo continuerà a dipendere dall’adesione degli 11 fornitori esterni presenti il dicembre scorso al vertice di Vienna.
In caso di fallimento dei negoziati, gli analisti di Citigroup e J.P. Morgan pronosticano che i prezzi del petrolio caleranno sotto i 40 dollari al barile. In aggiunta, tutti questi soggetti devono anche gestire la sfida rappresentata da un attore che non sarà presente a Vienna: i produttori americani di shale oil, il petrolio da scisto. Se la proroga del trattato farà salire i prezzi del petrolio, i produttori di shale oil saranno incentivati a intensificare l’attività, aggiungendo nuovi barili all’eccesso di offerta globale. Conseguenza, prezzi a picco.
Insomma, o il Dio della casualità e della coincidenza ha voluto lanciare i dati in questo periodo o questa drammatizzazione per il petrolio sotto i 50 dollari ricorda molto, per timing e toni apocalittici, la questione nordcoreana: c’è un’agenda da nascondere e occorre farlo in fretta. Attenti all’Iran da qui alle prossime settimane, potrebbe essere il proxy di molte dinamiche, non solo petrolifere. Siria in testa.