Mercoledì 10 maggio, i sindacati si incontreranno con i commissari nominati dal Governo per tentare di risolvere il “caso Alitalia. Un “caso” che seguo da circa vent’anni sia con commenti su quotidiani (Milano Finanza, Italia Oggi, Il Tempo), sia come estensore del capitolo sulle privatizzazioni del Rapporto Annuale sulla liberalizzazione della società ed economia italiana dell’Associazione Società Libera. Circa sedici anni fa sottolineavo che mentre l’amministratore delegato dell’epoca inaugurava a New York lussuose lounges per i passeggeri dei Club Freccia Alata e Ulisse, la compagnia era già fallita tecnicamente o quasi. Perdeva mezzo milione di euro l’anno, il capitale stava per sparire del tutto (infatti, si è dovuta creare una bad company tramite la quale affibbiare le perdite sul groppone dei contribuenti), le attività si restringevano sempre più all’Italia (dove la quota dell’aerolinea era passata, nell’arco di dieci anni, dall’80% al 50%) mentre il traffico italiano si apriva sempre più alla concorrenza, sul piano internazionale l’azienda era diventata irrilevante, con appena una trentina di aerei di lungo raggio rispetto ai 110 di Air France-Klm e i 260 di British Airways-Iberia, e una cifra analoga di Lufthansa-Swiss-Austrian. È inconcepibile che l’Europa abbia più di tre gruppi per il lungo raggio.
Fallita la trattativa con Air France-Klm a ragione di un inconsiderato sciopero proprio mentre il negoziato era in corso, i “capitani coraggiosi” invitati a risolvere il problema (accollando i debiti pregressi allo Stato, ossia a tutti noi) hanno pensato di rivolgersi agli arabi di Etihad. Non pochi dirigenti e sedicenti manager hanno anche mostrato una certa supponenza, pensando che nel Golfo fossero “sottosviluppati”. Ora Etihad ce lo rimanda indietro, dopo una nuova valanga di perdite.
Mi auguro che all’incontro di dopodomani non si parli solamente di esuberi, ammortizzatori sociali e più o meno grandiosi piani industriali. Spesso studiando una foglia, si comprende meglio qual è lo stato di salute dell’intero bosco. In questi giorni, sono filtrati molti aspetti discutibili su come vengono conclusi contratti a prezzi “garantiti”; sono state espresse perplessità. Poco si sa di come vengono esternalizzati i servizi: probabilmente con semplici “gare al ribasso” o mere “aste” o peggio ancora con quei beauty contest basati su una ridda di indicatori da confondere chi voglia farne un esame critico.
Proprio a un beauty contest ci si rivolse una quindicina di anni fa, quando si tentò,senza successo, di appioppare Alitalia a Klm. In un primo momento, circa tre lustri fa, parve che ci si stesse indirizzando verso un metodo d’asta tradizionale (non “aste alla Vickrey”, dal nome del Premio Nobel che la formulò, quali ormai prassi in altri Paesi e di cui si è anche fatta qualche esperienza in Italia) o peggio ancora verso un beauty contest (ossia punteggi corrispondenti al capitolato) sul tipo dell’asta del 1994 per il secondo gestore di telefonia. Tali metodi possono favorire i corsari, specialmente ma non solo quelli nostrani, che comprano a prezzo di svendita, cedono alcuni rami e buttano a mare il resto (se Pantalone non fornisce nuova linfa in euro contanti).
Ho utilizzato “aste alla Vickrey” per circa quattro lustri quando funzionario, prima, e dirigente, poi, della Banca Mondiale avevo anche il compito di vigilare su appalti in Paesi dell’Estremo Oriente e dell’Africa – non tutti modello di serietà e integrità. Imponevo che si utilizzasse quello che chiamavo “il Nobel degli appalti”, in quanto fruttò l’onorificenza a chi lo ha inventato, William Spencer Vickrey, un economista canadese che ha insegnato per anni alla Columbia University di New York. Nel 1961 il Journal of Finance pubblicò un suo articolo fondamentale, Counterspeculation, auctions and competitive sealed tenders (“Controspeculazione, aste e offerte competitive in busta chiusa”): era il primo tentativo da parte di un economista di utilizzare gli strumenti propri della teoria dei giochi per meglio capire e organizzare le gare.
Nell’articolo, più avanzato di almeno venti anni rispetto al dibattito dell’epoca, non solo Vickrey derivava vari equilibri nello svolgimento delle aste, ma forniva un teorema oggi al centro della teoria delle aste. “L’asta alla Vickrey“, che dai lui prende il nome, è ancora poco applicata in Italia (pare ignorata da alti dirigenti della Consip, dove i suoi saggi di Vickrey dovrebbero, invece, essere studiati con la cura che i buoni parroci hanno per il breviario). Ciò nonostante, proprio nel nostro Paese ci si è ispirati a suoi lavori in materia di congestion pricing per l’Ecopass di Milano. Il congestion pricing si basa sull’idea che servizi come le strade e altri dovrebbero essere venduti a un prezzo tale che gli utenti abbiano contezza dei costi che, a loro volta, aumentano per via dell’utilizzo pieno del servizio. In tal modo, si dà un duplice segnale: uno agli utenti, volto a modificarne i comportamenti, e uno agli investitori, volto a far sì che questi espandano il servizio.
Anni fa, la bella rivista “Amministrazione Civile” del ministero dell’Interno mi ha chiesto un intervento su questi temi – segno importante del crescente interesse per le “aste alla Vickrey”, anche se poco si muove in grandi stazioni appaltanti della pubblica amministrazione centrale, periferica e locale.
Cos’è “un’asta alla Vickrey”? Se la stazione appaltante ha come obiettivo principale l’efficienza (come dovrebbe essere sempre quando si tratta di opere pubbliche pagate da Pantalone), il teorema analitico e le dimostrazioni empiriche di Vickrey spiegano che il meccanismo per garantirne il raggiungimento e ottenere, al tempo stesso, la massima trasparenza è quello della “second-price sealed auction”, in cui tutte le offerte vengono comunicate contemporaneamente in busta sigillata. Vince l’offerente con la massima offerta, in cambio, però, del pagamento del secondo prezzo più alto. L’efficienza è garantita, perché il bene è affidato al compratore che ne dà la massima valutazione. In aggiunta, chi presenta offerte non ha incentivo a fare il bracconiere dichiarando il falso. Si evitano bracconieri e corsari, in cerca di prede da acquistare (possibilmente a basso costo), spezzettare e rivendere a pezzi e bocconi.
I dettagli vengono illustrati tra l’altro nel volume curato da Nicola Dimitri, Gustavo Piga Giancarlo Spagnolo “Handbook of Procurement Fostering Participation in Competitive Procurement” pubblicato nel 2010 dalla Cambridge University Press. Un libro di grande spessore internazionale (anche se i suoi autori sono tutti italiani) e riconosciuto tale nelle recensioni apparse sulle maggiori riviste scientifiche mondiali.
Naturalmente “un’asta alla Vickrey” richiede un capitolato acconcio e molto dettagliato tale da incoraggiare imprese serie, dotate della necessaria capacità finanziaria e industriale. Vickrey in persona amava sottolinearlo nelle serate al caminetto nel suo villino a Hastings-on-Hudson nei pressi di New York. Non si deve pensare che le “aste alla Vickrey” siano un toccasana: rendono più difficile la collusione e il malaffare, ma non esiste strumento che li rende impossibili. Raggiungono, comunque, l’obiettivo di incentivare efficienza e trasparenza. È stata adottata “un’asta alla Vickrey” nel piccolo condominio (nove appartamenti di modeste dimensioni) dove abito al centro di Roma, per affidare lavori strutturali a un’immobile più che centenario ed edificato dove c’era una palude.
Questo lungo excursus pare portarci fuori tema. Come la foglia per studiare il bosco è, invece, un modo efficace per toccare con mano la tanto vantata professionalità di dirigenti dell’Alitalia (e forse anche della Consip). Se non si affidano a metodi moderni per effettuare un gara, come pensare che possano avere un ruolo dirigenziale in una linea area, e ancor di più, in una centrale appalti? E come credere che i loro servizi siano appetibili?