Essendo stato scritto quando ancora i seggi francesi erano aperti, oggi questo articolo rischia di rimanere schiacciato dalla stretta cronaca politica, per questo eviterò di dilungarmi come al solito. Vi prego, però, di prestare attenzione a ciò che sto per dirvi, poiché potrà fungere da stella polare per la lettura e la traduzione di quanto avverrà da qui a fine anno sui mercati. Il concetto di base è semplice: cosa ha mantenuto inalterati e sicuri i mercati equities, nonostante Brexit, Trump e i timori legati a Marine Le Pen e alla sua minaccia di Frexit? Una sola cosa: quella che Michael Hartnett di Bank of America ha definito la “supernova della liquidità”, ovvero l’intervento continuato e continuativo delle Banche centrali sul mercato. Punto, non c’è altro.
Partendo da questo principio fisso, diamo ora un’occhiata alla situazione attuale. Questo grafico ci mostra l’ammontare monstre di quanto acquistato negli anni dalle Banche centrale nell’operazione di prop-up dei mercati: spaventoso, ma la cosa peggiore è un’altra. Ovvero, che tutta quella liquidità non è servita a garantire una ripresa dell’economia globale, ma soltanto una stabilizzazione artificiale del sistema finanziario: la crescita, infatti, è soltanto minimamente percettibile e in maniera molto diseguale tra i vari Continenti. E veniamo all’oggi: nel primo trimestre di quest’anno, le Banche centrali (soprattutto Bce e Bank of Japan) hanno già comprato assets finanziari per oltre 1 triliardo di dollari, un controvalore annualizzato di 3,6 miliardi di dollari, il maggiore di sempre. E questa è un’evoluzione di un qualcosa di consolidato, perché già nell’ottobre del 2014, Matt King di Citigroup fece notare al mondo che gli interventi delle Banche centrali avevano portato a un unico risultato acclarato: spendere 200 miliardi a trimestre soltanto per evitare che il mercato crollasse.
Ora, a tre anni di distanza, a trimestre si spende cinque volte tanto per assolvere a quel mero compito di stabilizzazione e con la Fed formalmente fuorigioco, visto che sta imbarcandosi in un processo di contrazione valutaria (ancorché tamponato dall’aumento della spesa federale, un diverso tipo di Qe). Ora, guardate questi due altri grafici, i quali ci mostrano due cose: primo, la Banca centrale svizzera sta operando sul mercato equity Usa come compratore di prima e ultima istanza, avendo acquistato nel primo trimestre di quest’anno un controvalore record di titoli azionari statunitensi pari a 17 miliardi di dollari, portando la detenzione totale di US equity long a qualcosa come 80,4 miliardi. Non è una Banca centrale, è un hedge fund. Il secondo grafico ci dice che, nel corso di questo processo, solo nei primi tre mesi di quest’anno, la Banca elvetica ha comprato 3,9 miliardi di titoli Apple, portando la sua detenzione totale a circa 19 miliardi di controvalore. Stiamo parlando di una Banca centrale e nemmeno una delle più grosse.
Il problema, come ha dimostrato con il suo recente studio Dominic Konstam di Deutsche Bank, è che 1 triliardo di dollari di acquisti da inizio anno a ora – circa 250 miliardi di mese – non sono stati sufficienti. Primo, le Banche centrali devono monetizzare sempre più assets per mantenere il sistema stabile e, secondo, l’operazione di off-setting dell’espansione organica dei bilanci delle Banche centrali porta al calo delle riserve valutarie tra i liquidity managers. Stando ai dati dello scorso febbraio, il calo delle riserve su base annua è stato dell’1%. Insomma, il sistema deve “mangiare” sempre più liquidità per stare in piedi ma questa stessa comincia a calare. E non solo, oggi come oggi i costi marginali delle iniezioni di liquidità delle Banche centrali sono negativo: ovvero, i danni – in primis, una distorta allocazione degli assets e un aumento dei deficit pensionistici – stanno superando i benefici delle operazioni di Qe.
Qual è il rischio, crescente giorno dopo giorno? Che, prima o poi, i mercati si rendano conto della cifra monstre che le Banche centrali stanno spendendo da anni – e sempre in aumento – solo per evitare che crollino e si pongano la domanda: quando e se dovesse arrivare un nuovo shock sistemico, cosa accadrà, visto che la “supernova delle liquidità” è già in campo e non paiono esserci nuovi bazooka a disposizione?
Se ricordate, poi, la scorsa settimana vi mettevo in guardia dalla crescente bolla creditizia cinese resa possibile dalla pax valutaria scoppiata tra Trump e Jinping, attraverso il proxy nordcoreano, ricordandovi come il contributo di Pechino all’impulso creditizio globale sia ora negativo, proprio per necessità di intervento interno. Bene, venerdì scorso il ministro delle Finanze cinese, Xiao Jie, ha annullato all’ultimo minuto la sua presenza a un meeting con i suoi colleghi giapponese e sudcoreano per «un incontro di emergenza a livello interno», come confermato da un funzionario alla Reuters. Motivo? Ovviamente segreto, anche se poi il ministro ha raggiunto il Giappone nel pomeriggio. Doveva comunicare qualcosa alle controparti? Portava un’ambasciata dall’incontro d’emergenza del mattino? Probabilmente è stato il contrario. Ovvero, i giapponesi hanno dovuto rendere noto ai cinesi, già preoccupati, quel che vedete rappresentato nel grafico, cioè che negli ultimi quattro anni, la Bank of Japan è intervenuta una volta su due quando c’era da rivitalizzare il Nikkei dai suoi minimi.
Avete capito come si garantiscono acquisti in aumento del 70% su base annua: compra direttamente la Banca centrale, la quale oggi come oggi è presente tra i 10 principali compratori del 90% dei titoli azionari nipponici. Stando ai calcoli elaborati dal Financial Times, la Bank of Japan ha garantito al Nikkei un supporto cumulativo pari a 1400 punti. Questo non è mercato, è pianificazione centrale. Ripeto, fra aprile 2014 e marzo 2017, si sono registrate 449 sessioni in cui il mercato era negativo: bene, la BoJ è intervenuta in oltre la metà di esse, comprando. Senza il suo stimolo, dove sarebbe oggi il Nikkei? E, di conseguenza, gli altri mercati? E dove sarebbe la valutazione dello yen, caposaldo di qualche triliardo di scommesse derivate sulle valute? E se la Bce non stesse comprando a tutta forza, anche bond corporate dal dubbio rating, dove sarebbe lo spread italiano e, quindi, il nostro costo per il servizio del debito?
Macron o Le Pen conta poco, come conterà poco se sarà Merkel o Schulz il prossimo settembre: a governare davvero in Europa è soltanto Mario Draghi e lo stesso vale per il resto del mondo. I Parlamenti contano zero, senza le Banche centrali quanto accaduto nel 2007-2008 sarebbe stato soltanto un piacevole e affatto indigeribile antipasto: 1 triliardo a trimestre di stimolo solo per mantenere lo status quo, ovvero non far crollare il mercato ai livelli che meriterebbe se ci fosse ancora un po’ di valutazione mark-to-market e price discovery. Di più, con soggetti come la Banca centrale svizzera o la Bank of Japan che operano come hedge funds, comprando direttamente equities sul mercato.
Può durare ancora per molto questo cosiddetto “libero mercato”? Capito perché si ha tanta paura dei partiti populisti? Perché mettere in discussione l’Europa, così come Trump mette in discussione l’operato della Fed, significa scherzare con il fuoco, rischiare di far saltare l’architrave che tiene ancora in piedi il castello di debito e deficit con cui abbiamo a che fare e che abbiamo costruito negli anni post-crisi, alla faccia del salutare e schumpeteriano deleverage e dell’eliminazione del concetto di azzardo morale. Non gioite per Macron o piangete per la Le Pen, non contano nulla a livello sistemico: se salta il grande stimolo, salta tutto. E qualche brutto scricchiolio, come spero di avervi dimostrato, comincia davvero a sentirsi.