Se pensate che gli unici due confronti degni di nota dello scorso fine settimana siano stati il ballottaggio francese e l’assemblea del Pd siete fortunati. Perché non avete idea di cosa stia accadendo davvero nel mondo. Nel mio articolo di ieri mettevo chiaramente in evidenza come siano i banchieri centrali – e solo loro – a decidere i destini di popoli e nazioni, attraverso le valute, non certo i Parlamenti nazionali o i presidenti. Quindi, scusate se non mi accodo alla pletora di commenti sulla vittoria di Macron e la sconfitta del Front National: contano zero, se si parla di cose serie. Ovvero, di geo-finanza. 



Nel mio articolo di sabato facevo notare come i timori generalizzati per il nuovo calo del prezzo del petrolio sotto i 50 dollari al barile nascondessero in realtà la vera disputa, cioè quella infinita tra Arabia Saudita e Iran, un qualcosa che va al di là delle mere valutazioni del greggio. Siamo all’eterno scontro tra le anime dell’Islam, sunniti e sciiti e alla nuova rimodulazione degli assetti di potere in Medio Oriente. Quasi a voler giocare subito un ultimatum rispetto alla riunione dell’Opec del 25 maggio prossimo e, soprattutto, alle presidenziali iraniane del 19, il numero due saudita, Principe Mohammed bin Salman, l’uomo che controlla di fatto la politica petrolifera di Ryad, ha lanciato un attacco senza precedente verso Teheran nel corso di un’intervista televisiva, parlando degli sforzi messi in capo dall’Iran per dominare il mondo islamico: «Noi sappiamo di essere un obiettivo primario per il regime iraniano. Non aspetteremo fino a quando la battaglia arriverà in Arabia Saudita, ma lavoreremo affinché la battaglia si svolga in Iran». Di fatto, una minaccia di conflitto aperto. 



Vi avevo avvisato che in vista del voto del 19 le attività di destabilizzazione, dirette e indirette, si sarebbero palesate, ma qui siamo alla sfida militare, sintomo di due cose. Primo, l’avanzata e la resistenza dei ribelli Houthi in Yemen ha colto di sorpresa Ryad, la quale ora chiederà sicuramente a Trump – il quale giungerà in visita il giorno dopo le presidenziali di Teheran – di mantenere la sua promessa di maggiore impegno al fianco saudita per stroncare in tempi rapidi il conflitto proxy con l’Iran. Secondo, la questione petrolifera per il Regno è più grave di quanto ammettano pubblicamente. E attenzione, perché se la retorica ha un suo valore almeno simbolico, la risposta giunta domenica dall’Iran attraverso il ministro della Difesa, Hossein Dehghan, è di quelle che non lasciano scampo, né margini di interpretazione: «Se i sauditi faranno qualcosa di irrazionale, non lasceremo nessuna area indenne, se non La Mecca e Medina». Come dire, vi riduciamo un posacenere stile campagna di Cecenia. E ancora: «Pensano di poter fare qualcosa perché hanno una forza aerea», chiarissimo riferimento ai raid contro i ribelli Houthi nelle aree di controllo nella capitale yemenita, Sanaa. Insomma, i riferimenti sono fin troppo espliciti per non essere colti, visto che se gli Usa hanno già detto di voler spalleggiare l’Arabia per chiudere in fretta la campagna in Yemen, i russi hanno stretto un rapporto con i ribelli Houthi, i quali hanno dichiarato di essere pronti a cedere loro basi logistiche, anche aeronautiche. 



Pensate che, al netto del supporto iraniano agli Houthi, gli Usa lascino che la Russia, dopo la Siria, metta pesantemente piede anche in Yemen, ovvero a un passo da uno dei choke-point più importanti del mondo, Bab el-Mandeb, nel golfo di Aden? Oltretutto, di fronte allo strategico Djbouti, Stato africano dove gli Usa detengono la base militare di Camp Lemmonier e dove la Cina, alleato strategico dell’Iran per petrolio e cooperazione militare, ha avanzato richiesta per aprire essa stessa la sua prima base militare in territorio africano? Questa infografica vi spiega più di mille mie parole, la strategicità dell’area di cui stiamo parlando. Altro che Macron. Siamo all’ennesimo, rituale innalzamento del livello di scontro verbale tra i due arci-nemici o c’è qualcosa di più? 

Saranno proprio le trattative pre-vertice Opec a dircelo e significa che, da qui al 25 maggio, ogni giorno potrebbe rivelarci qualcosa e riservarci sorprese. Tanto più che Teheran, essendo in piena campagna elettorale, è particolarmente sensibile a qualsiasi argomento possa essere visto e interpretato come un indebito tentativo di ingerenza nel processo politico interno. Si sa, in Arabia Saudita i toni nazionalistici un po’ pirotecnici sono tutti a consumo interno, benzina per il consenso, ma quando si parla di carburanti veri, il petrolio, allora la questione diventa seria: e i conti di Aramco, l’azienda energetica statale, ci dicono che occorre fare in fretta. E mettere anche il carico da novanta, se necessario. 

Attenzione poi al ruolo della Cina, la cui sottovalutazione sarebbe un errore madornale. Non solo Pechino ha un ruolo, ancorché indiretto, nella disputa tra Teheran e Ryad, stante i contratti per miliardi di dollari tra i due partner, ma sta anche giocando, contemporaneamente, un’altra partita, anche questa di dissimulazione strategica. Come vi dico da settimane, la pantomima nordcoreana è solo una scusa che la Cina sta usando – e continuerà a utilizzare – per poter scatenare un armageddon creditizio, visto che la situazione sta peggiorando a vista d’occhio, anche a causa del continuo indebolimento del dollaro che rende più difficile, oneroso e visibile, svalutare. Questo grafico mette in prospettiva la situazione attuale, ovvero la relazione tra yuan e biglietto verde Usa: nonostante la sell-off su quest’ultimo, il tasso non rende affatto più semplice la vita al Politburo cinese. Siamo nel range dei 6.900, ovvero molto vicino alla soglia psicologica dei 7mila: cosa significa se l’indice si rafforza, nonostante il dollaro si indebolisca? Semplice, che lo yuan sta perdendo valore più in fretta di quanto non accadesse solo pochi mesi fa. E, come vi ho già detto, questa dinamica dello yuan sta colpendo duramente il prezzo delle commodities, aprendo uno scenario più generale da 2007 al cubo. 

Se infatti oggi il grosso dei problemi interni della Cina è legato al ramo real estate, occorre ricordare su cosa è stato costruito e come è stato finanziato il boom immobiliare cinese: collateralizzazione di commodities. La magnitudo del problema rispetto all’orgia di Cds/Mbs dei subprime Usa? Mille volte tanto. Come vi dico sempre, tout se tient, tanto per fare un omaggio alla Francia. Attenti a Iran e Cina, ciò che davvero conta e che ci dirà quale direzione prenderanno mercati e conflitti, passa da loro.