Hanno scoperto la bellezza della democrazia. Di colpo. I difensori ortodossi della stabilità dai rischi della campagna elettorale permanente che spaventa i mercati, ora se ne fregano sia dell’una che degli altri: occorre votare. Perché votare è bello, votare è democratico, votare legittima chi verrà dopo di fronte al mondo. Sia chiaro, io stesso sono un attimino stanco di aver visto governi non eletti succedersi dal 2011 a oggi, però quando ci sono troppe coincidenze e tempistiche sospette, mi viene il dubbio che il mio voto sia estorto e funzionale ai disegni altrui. Soprattutto, quando dovrebbe essere espresso con una legge che – stando lo stato dell’arte attuale – significherebbe ingovernabilità o inciucio. A quel punto, allora, facciano da soli come hanno fatto finora, evitino di prendermi almeno in giro. Perché, suvvia, questa fretta è sospetta. Così come il fatto che dopo mesi di guerra, contrapposizioni frontali, dialogo assente e continui rinvii, in quattro e quattr’otto si trova un accordo tra Pd, Forza Italia, M5S e addirittura Lega Nord su un proporzionale con sbarramento al 5%, cosa un po’ diversa dal sistema tedesco chiamato incautamente in causa.
Hanno tirato fuori decine di ipotesi, una con un nome più idiota dell’altro, sembrava che stessero lavorando alla scissione dell’atomo tra collegi uninominali e capilista più o meno bloccati e, alla fine, torniamo al vecchio, caro proporzionale da frammentazione e pentapartito? Va bene che su Sky sta andando in onda, con grande successo, la serie 1993, ma qui forse si esagera un po’. Oppure no, perché la trama di quanto sta accadendo è scritta qui, ma non è stata vergata orginalmente in Italia, come allora. Metto in fila qualche dubbio.
Primo, l’accelerazione inciucista sulla legge elettorale ha preso il via dopo l’elezione di Emmanuel Macron all’Eliseo, quasi servisse lo sparo dello starter: dopo che i poteri eurocratici, benedetti dal Deep State clintoniano e obamiano negli Usa, sono riusciti a evitare l’incubo Le Pen, piazzando un loro uomo al vertice dello Stato francese, si poteva partire con la campagna d’Italia, il Paese geostrategicamente più importante dell’Ue, non fosse altro per il ruolo nel Mediterraneo. E che la manina di Bruxelles ci sia eccome, lo ha dimostrato la reazione del commissario agli Affari economici e monetari, Pierre Moscovici, all’ipotesi di voto anticipato: è la democrazia, non casca il mondo. Fino a tre mesi fa, soltanto prendere in esame a livello teorico questa ipotesi avrebbe scatenato gli strali terroristici di Bruxelles, in nome della stabilità e delle riforme. Ora, invece, anticipare il voto di sei, sette mesi al massimo rispetto alla scadenza elettorale, va benissimo ai guardiani dei conti e dell’austerity. Nonostante questo rappresenti un precedente assoluto in settanta anni di storia repubblicana, cioè un voto in autunno. Ovvero, quando normalmente si lavora alla Legge di stabilità (una volta era la Finanziaria), da licenziare entro fine anno. Con l’aria che tira politicamente, siamo in piena ipotesi di esercizio provvisorio, il tutto con la spada di Damocle delle clausole di salvaguardia da onorare: non sarà che Bruxelles l’aumento dell’Iva lo vuole senza se e senza ma e il modo migliore per ottenerlo sia proprio il voto anticipato? Non sarà che qualcuno, sempre a Bruxelles, abbia prospettato guai e bail-in pieno per le due banche venete, in caso di “intoppi” rispetto ai desiderata?
Vi sembrerà paradossale, ma io vedo le eventuali urne autunnali non come una scelta per il bene del Paese, ma come una rivincita della partita persa da certi poteri l’8 novembre dello scorso anno negli Usa. Gli indizi sono tanti, in tal senso. Come interpretare, altrimenti, l’editoriale di ieri mattina su Repubblica a firma del direttore, Mario Calabresi e intitolato Sei riforme da non tradire? Eccone un passo: «…per essere decoroso questo finale di legislatura dovrebbe evitare di buttare all’aria i provvedimenti che attendono di essere varati da anni e che sono ormai vicinissimi alla meta. Sono molti, dalle liberalizzazioni all’abolizione dei vitalizi. Ma ci sono soprattutto le leggi che riguardano i diritti dei cittadini, approvarle sarebbe un atto di sensibilità oltre che un segno di civiltà. Ne abbiamo individuate sei a cui manca il voto finale e da oggi le ricorderemo tutti i giorni, affinché lettori ed elettori possano valutare i comportamenti delle varie forze politiche che si preparano a chiedere il loro voto. Ci sono l’attesissima legge sul biotestamento; quella sulla cittadinanza…; l’introduzione nel nostro ordinamento del reato di tortura l’approvazione del nuovo codice antimafia; la legalizzazione della cannabis e infine la riforma del processo penale…». Temi scottanti che hanno visto la stessa maggioranza di governo spaccata, vedi sulla cannabis o sul biotestamento e altri, invece, che avrebbero rischiato di innescare un Vietnam parlamentare destinato ad alimentare il bacino elettorale per la destra, vedi lo ius soli e la cittadinanza. Se si vota anticipatamente, invece, Repubbica chiede che queste leggi in cerca d’autore e approvazione godano di una corsia preferenziale e vengano blindate ed emanate prima delle urne. Sospetto, non vi pare?
Magari mi sbaglio, ma quando certi temi, definiamoli progressisti e intimamente legati al concetto sempre più opaco e ampio di diritti civili, vengono priorizzati così, la puzza di doppio fine si sente lontano un miglio. Così come quella di eterodirezione. E che Repubblica sia l’house organ di certe istanza mondialiste (per la parte dedicata all’esportazione della democrazia e alla guerra preventiva, ci pensa invece La Stampa), lo sanno anche i sassi. D’altronde, votano tutti quest’anno. Hanno già scelto olandesi, francesi (i quali la settimana prossima andranno alle urne per le legislative, con il partito di Macron – nato da meno di un anno – accreditato oggi del 31%, altro che il miracolo di Berlusconi nel 1994!), mentre la settimana prossima toccherà ai britannici, il 24 settembre ai tedeschi e il 15 ottobre agli austriaci. Manchiamo noi e gli spagnoli, ma in entrambi i casi, ci si sta lavorando su seriamente.
Serve forse un reset politico generale che garantisca governi allineati per poi accelerare su determinate riforme in campo europeo? Il timore è forte. E anche in politica estera, la battaglia adesso comincia a farsi pesante: caso strano, gli stessi poteri nascosti – il Deep State – che negli Usa stanno facendo la guerra a Donald Trump tramite le inchieste sul Russiagate, sono quelli che puntano ad avere un’Europa prona, silente e ubbidiente sui grandi temi, in primis il Medio Oriente. Come spiegare il fatto che il Consiglio Ue abbia prorogato per un altro anno le sanzioni contro la Siria? È questo lo spirito costruttivo per cercare una pace in quel Paese martoriato? E le sanzioni alla Russia, anch’esse prorogate su fortissima pressione dei due rappresentanti del contropotere obamiano in Europa, Angela Merkel e Donald Tusk? Guardate il grafico più sotto: ci mostra come il credit default swap russo a 5 anni, ora sia tornato al livello del settembre 2013. Chi sta pagando il prezzo di quell’imposizione statunitense, Mosca o i nostri produttori/esportatori? Cos’è stato, di fatto, l’attacco senza precedenti della Merkel contro Trump dopo il G7 di Taormina, se non il giuramento di fedeltà al blocco di potere che punta a riconquistare la Casa Bianca? Per la cancelliera, infatti, gli Usa non sono più un alleato credibile perché a rappresentarli c’è Trump, non per le loro politiche folli, sia in economia che in politica estera.
Conferma di questo è il fatto che, a oggi, in queste due materie Donald Trump si è mostrato paradossalmente in linea con le amministrazioni precedenti, vedi le armi all’Arabia o l’appeasement totale ai desiderata geopolitici di Israele o la retromarcia su una maggiore regolamentazione di quel casinò chiamato Wall Street. Perché allora la Merkel non ha attaccato frontalmente Obama e i suoi Usa, stante la politica da carta carbone? Può l’Italia perdere dell’altro tempo, tracheggiare fino a febbraio o magari marzo o aprile? No. E non per il suo bene o quello dei suoi cittadini, perché c’è forse un’agenda geopolitica e geofinanziaria da portare avanti in fretta prima che la bolla esploda.
E, vi assicuro, non manca molto, tanto che alcuni hedge funds stanno scappando a gambe levate già ora. E come leggere l’editoriale pubblicato lunedì dal New York Times, nel quale il corrispondente da Roma metteva in guardia dal rischio che l’inazione dell’amministrazione Trump verso il Bel Paese potrebbe portare quest’ultimo verso un’inclinazione filo-russa dell’opinione pubblica? Non sarà che le recenti e fruttuose, dal punto di vista diplomatico ma anche di collaborazione fattiva, visite del presidente Sergio Mattarella e di Paolo Gentiloni da Vladimir Putin abbiano fatto arrabbiare qualcuno al Dipartimento di Stato? Il fatto che gli italiani sappiano ancora ragionare un minimo con la loro testa in politica estera è reato di lesa maestà, come accadde per Giulio Andreotti e Bettino Craxi? Caso strano, i due implicitamente colpiti dal New York Times sono anche i due più contrari al voto anticipato.
Datemi pure del paranoico o del dietrologo, non mi interessa, io lo ripeto: temo che un voto anticipato ora sia soltanto la rivincita di certi poteri per l’8 novembre 2016. E, per qualcuno che qui presta il fianco all’operazione, per la sconfitta del 4 dicembre. D’altronde, nella sua recente visita milanese, Barack Obama avrebbe dovuto parlare di innovazione alimentare, invece dopo averci illuminato sul fatto che Leonardo fosse un genio – aspettavamo lui per scoprirlo -, ha usato la platea pagante per illustrare la sua agenda anti-Trump, dicendo chiaro e tondo che Matteo Renzi lo avrebbe aiutato a creare una rete di volontari per far nascere nuovi leader del futuro. In quella visita milanese, Paolo Gentiloni fu trattato con maleducazione istituzionale vergognosa, mentre la scena accanto a Obama fu tutta per il segretario del Pd. Ora, forse, è giunto il momento di ricambiare il favore. Con l’accordo, miope e un po’ vigliacco, di tutte le grandi forze parlamentari, preoccupate solo della corsa alla poltrona.
Temevo un nuovo 1992, avremo un 1993-1994 in un’unica soluzione. Vediamo ora da quale parte si schiererà Mario Draghi il prossimo 8 giugno, potrebbe essere dirimente.