Il voto britannico ha un solo vincitore: chi vuole rallentare la Brexit, al fine di sabotarla del tutto. E non escludo che che questo qualcuno, inteso come gruppo di interesse, sia stato il pifferaio magico che lo scorso aprile ha suggerito a Theresa May, certamente non un fulmine di guerra a livello politico, di indire elezioni anticipate, forte di sondaggi che vedevano i Conservatori vincere in carrozza. Detto fatto, i 22 punti percentuali che i Tories avevano sul Labour il 19 aprile, quando la prima ministro indisse le elezioni, si sono ridotti a due, 42% a 40%. Ma, soprattutto, ora Theresa May è sotto quota 326 seggi, quella necessaria per governare: non c’è una maggioranza, siamo al cosiddetto hung Parliament, il Parlamento impiccato alla corda dell’inazione. Alla fine, la primo ministro cederà alle pressioni dentro e fuori il Partito conservatore e si dimetterà?
Per ora, sembra intenzionata a resistere e tentare un governo con gli unionisti nordirlandesi o, addirittura, una sorta di grosse koalition alla tedesca: la probabilità di un nuovo voto entro, al massimo, un anno è praticamente certa. Peccato che il 19 giugno sia previsto il primo incontro preliminare tra governo britannico e Ue sulle procedure di attivazione del Brexit: chi ci andrà? E con quale mandato? Di più, il quasi dimezzamento dei voti dei nazionalisti scozzesi dell’Snp crea ulteriore confusione attorno all’addio da Bruxelles, mentre il buon dato degli euroentusiasti LibDem parla la lingua di un Paese che sta rigettando, quasi certamente per l’effetto del terrorismo, ogni tipo di avventurismo e si rifugia nelle certezze dell’establishment e dei partiti tradizionali. Non a caso, l’Ukip che fu motore del referendum sul Brexit è letteralmente sparito, non solo da Westminster (doveva aveva un solo seggio), ma dai collegi a livello percentuale: svanito, evaporato.
A Bruxelles nessuno può ammetterlo ufficialmente, ma hanno stappato champagne. Si aprono le porte al Regrexit, ovvero al dietrofront rispetto al risultato del referendum e all’addio all’Ue? Non mi sento affatto di escluderlo, visto che Danske Bank nel suo report parlava di questa opportunità come probabile in caso di vittoria del Labour: e, se si tornerà a votare, state certi che Jeremy Corbyn stavolta vincerà. In effetti, non dover gestire una patata bollente di quel genere rappresenta un sospiro di sollievo per l’eurocrazia. La quale deve fare i conti, prima che con i Trattati, con quanto la Bce impone come agenda. E veniamo al punto. Nell’articolo di ieri dicevo chiaro e tondo che Draghi aveva salvato un’altra volta l’Italia, quando ha reso noto che il Qe, di fatto, andrà certamente avanti oltre il limite temporale imposto: rivedere al ribasso le prospettive inflazionistiche per il 2018, in discesa dall’1,6% all’1,3%, equivale a dire che gli acquisti andranno avanti per tutto il prossimo anno, perché non solo ci si allontana dal target del 2%, ma, oltrettuto, si cala e non poco su base annua, quindi riattivando rischi di traiettoria downside. Non vorrete mica mettere a repentaglio la strepitosa ripresa in atto? Eh no, quindi – nell’idea di Draghi – anche la Bundesbank dovrà stare buona e rimettere nel fodero l’arma del tapering, ovvero la riduzione degli acquisti di bond già dalla fine di quest’anno.
Fino a ieri ero abbastanza persuaso anch’io di questa strategia, poi sono usciti certi numeri riguardanti proprio l’acquisto di assets da parte della Bce nell’ambito del Pspp e allora le cose cambiano: in primis, per l’arco temporale di “copertura” di cui l’Italia potrà godere, a livello di spread sotto controllo. Partiamo dal principio. Un mese fa, alcuni analisti osservarono un cambiamento nei pattern di acquisto dell’Eurotower, specialmente riguardo ai Bund tedeschi: stando a calcoli di Abn Amro, in aprile la Bce aveva comprato 400 milioni di controvalore in meno di Bund rispetto a quanto concesso dal regolamento del Pspp. Di fatto, dimostrandoci cosa? Che fosse già in atto una severa scarsità di bond eligibili all’acquisto, tanto che si azzardò anche un arco temporale: entro 4 mesi, la Bce avrebbe terminato il suo tempo per quanto riguardava le obbligazioni tedesche, erano troppo poche. Per Frederik Ducrozet, economista senior di Pictet, «è stata la più grande deviazione di sempre, almeno per quanto riguarda la Germania. Questo mi suggerisce, al netto dello stress politico e dell’ammorbidimento degli acquisti, una scarsità legata alla Bundesbank. E questo significa che la Bce deve essere molto cauta con la sua uscita di scena e che, se non opera un tapering entro meno di sei mesi dalla fine del programma di Qe, qualche prezzo dovrà essere pagato».
Ma non basta, perché i dati oltre a mostrare un netto calo negli acquisti nominali, presentavano anche un’altra criticità: la maturity media del debito pubblico acquistato dall’Eurotower, in soli sei mesi, era calata da oltre 10 anni a meno di 5 anni. E questo cosa implica? Una carenza di debito eligibile a lunga scadenza che costringe la Bundesbank, la quale compra su mandato della Bce, ad acquistare sempre più bond a breve scadenza. E nonostante questo scostamento sulla curva della durata fosse prevedibile, dopo che lo scorso settembre la Bce ha cambiato le regole e ammesso l’acquisto di bond con rendimento inferiore a -0,40%, il tasso di deposito, molti analisti sono rimasti sorpresi dalla velocità con cui la Bundesbank ha utilizzato questa nuova finestra.
Insomma, c’è puzza di emergenza. Non molta ma sufficiente da fare storcere qualche naso, tanto che l’altro giorno Pimco ha annunciato una riduzione sull’esposizione obbligazionaria sovrana Ue, Italia in testa. Ovviamente, il dibattito che scaturì da questi dati andò velocemente a toccare il punto nodale: quanto in fretta la Bce sta avvicinandosi al tetto limite di acquisti in Germania, l’emittente benchmark europeo e, almeno finora, la più grande e profonda fonte di obbligazioni per l’intero programma di Qe, il cui termine ad oggi rimane prefissato alla fine di quest’anno? Stando a calcoli di Barclays, se la Bce mantenesse il suo programma di acquisti inalterato, il suo tetto massimo mandatario per l’acquisto di Bund, 33% del totale, sarebbe raggiunto il prossimo ottobre, di fatto quattro mesi da oggi.
Ed ecco il nuovo changer entrato in gioco, proprio ieri. La Bce ha infatti reso noti i dati di acquisto mensile per il mese di maggio e il trend si è rivelato ancora più problematico: come mostrano i grafici, la scadenza media ponderata degli acquisti in seno al Pspp ha visto il trend salire per quanto riguarda il debito francese, italiano e spagnolo, ma è drammaticamente calato per quanto riguarda la Germania. A maggio, la media della maturity per il debito tedesco acquistato è scesa per la prima volta in assoluto sotto i 4 anni, per l’esattezza 3,98 anni, mai così bassa.
Ancora più interessante quanto ci fa notare questo grafico di Jefferies, il quale ci dice che da quando il Qe è stato ridotto in volume lo scorso aprile, passando da 80 a 60 miliardi di acquisti mensili, si è registrata una riduzione sproporzionata nell’acquisto di assets in base alla nazione: per esempio, per Germania e l’Olanda (oltre alla Spagna, in maniera minore), i controvalori nel Pspp sono calati di circa il 30% negli ultimi due mesi, mentre in Francia e Italia la stessa figura ha visto un calo solo di circa il 21%. E questo cosa ci conferma? Semplicemente che per restare il più a lungo possibile in carreggiata con il Qe, la Bce sta attivamente riducendo l’ammontare di Bund tedeschi che acquista ogni mese, oltretutto concentrando sempre di più gli acquisti sulla parte breve della curva dei rendimenti, sintomo che i bond a più lunga scadenza eligibili stanno per finire o sono già terminati.
Il problema è che con ancora almeno sei mesi di Qe davanti a noi e con la prospettiva, avanzata giovedì da Draghi, di una prosecuzione nel 2018, questo trend di scarsità di bond elibigili in alcuni mercati potrebbe diventare un problema serio per la tenuta temporale del programma Pspp. Ovviamente, come ha già fatto, la Bce può cambiare i suoi criteri di acquisto, ampliando ancora la platea dell’eligibilità d’acquisto, ma vi faccio una domanda: come reagirebbero i mercati a una mossa come quella, magari già alla riunione di settembre, dopo tanta retorica sulla ripresa? Certo, ora avremo un roboante dato di acquisto di giugno, per il semplice fatto che nei mesi estivi calano i volumi e la Bce anticipa gli acquisti, ma agosto potrebbe presentarci qualche spiacevole sorpresa. Magari in Spagna, fonte immediata di contagio per il Portogallo, visto che, mentre il mondo guardava alll’impasse nel Regno Unito, il presidente catalano, Carles Puigdemont, ha avuto l’alzata di ingegno di lanciare ieri mattina l’ultima sfida allo stato spagnolo, annunciando che il referendum sull’indipendenza della Catalogna sarà convocato il primo ottobre prossimo, malgrado il veto del governo di Madrid. «Ai catalani sarà chiesto – ha detto -, se vogliono che la Catalogna sia uno Stato indipendente sotto forma di Repubblica». Pesando la Catalogna per il 20% abbondante del Pil spagnolo, se questa non si rivelerà in fretta una sparata propagandistica, che fine farà lo spread dei Bonos?
Insomma, l’Italia non conti troppo sullo scudo della Bce: la sua tenuta, massima, è entro fine anno, poi le crepe si faranno vedere. Quindi, meglio evitare avventurismi ulteriori e blindare da subito i conti. L’estate sarà torrida, posso garantirvelo senza bisogno di consultare un meteorologo.