La settimana scorsa si è chiusa con un doppia caduta della politica e del ceto che la interpreta e le dà voce. In Italia e in Gran Bretagna. In Italia, come sappiamo, la legge elettorale, apparentemente concordata tra le quattro maggiori forze politiche, è fallita alla prima prova dell’aula, un fallimento tanto più grave in quanto accompagnato dal goffo incidente di percorso di rendere palese una votazione che sarebbe dovuta essere segreta. In Gran Bretagna, il Primo Ministro Theresa May, che aveva indetto elezioni anticipate nelle convinzione di ottenere una significativa vittoria, ha ora difficoltà nel formare il Governo. Questi due avvenimenti avranno ripercussioni su tutta Europa.



In Italia, svanisce il programma di fare presentare la Legge di bilancio da un Governo forte (probabilmente di grande coalizione) che avrebbe dato al Paese maggior peso in Europa di quanto può averne un Esecutivo di fine legislatura e il cui il Segretario del maggior partito delle coalizione insulta senza mezzi termini il ministro degli Affari esteri. In Gran Bretagna è quanto mai difficile che si riesca a formare un Governo, con gli “unionisti” dell’Irlanda del Nord, senza che il programma del negoziato per la Brexit non subisca rimodulazioni. “I negoziati per stabilire i termini del divorzio tra il Regno Unito e l’Unione europea dovranno iniziare quando il Regno Unito sarà pronto”, ha detto il Capo dei negoziatori europei per la Brexit, Michel Barnier, all’indomani del voto britannico. “Il calendario e la posizione dell’Ue sono chiari. Ragioniamo insieme su come chiudere un accordo”, ha detto Barnier, che lo scorso mese aveva indicato il 19 giugno come data di inizio degli incontri.



Nel contempo, alla notizia del fallimento del programma per l’approvazione della legge elettorale italiana, le Borse hanno esultato. Più complesse le reazioni alle elezioni britanniche. La sterlina si è indebolita nei confronti delle principali monete. Secondo Léon Cornelissen, Chief Economist, e Lukas Daalder, Chief Investment Officer di Robeco, i mercati finanziari si adatteranno ai risultati delle elezioni britanniche “anche perché alla fine non cambia nulla di sostanziale”.

Mentre il ceto politico europeo incassa due brutti colpi, nello stesso giorno, a Tallinn, in Estonia, il Presidente della Banca centrale europea Mario Draghi ha tracciato un quadro relativamente incoraggiante dell’andamento dell’economia reale nell’area dell’euro. La leggera ripresa si sta rafforzando e la Bce intende sostenerla continuando sino a fine anno il programma di misure monetarie “straordinarie” che va sotto il nome di Quantitative easing. Ciò non toglie i sassi della scarpe di Paesi ad altissimo debito pubblico come l’Italia, ma dovrebbe indurre a maggiore attenzione all’ormai prossima Legge di bilancio e, dato che il Parlamento è in scadenza, a predisporre una legge elettorale condivisa, semplice e trasparente.



Due considerazioni, quindi, tra il politico e l’economico. Per un decennio, il sindacalista francese Marc Blondet (non certo collaterale alla destra) ha lamentato che nell’età della globalizzazione finanziaria, i Governi siano diventati “subappaltanti” dei mercati. Più di recente, Andrea Mattozzi (del California Institute of Technology) e Antonio Merlo (della University of Pennsylvania) hanno elaborato, sulla base di un’analisi internazionale ma guardando specialmente al caso Italia, una teoria sui metodi di reclutamento nei partiti politici tradizionali – “Mediocracy” (“Mediocrazia- ossia il potere dei mediocri”) NBER Working Paper No. W12920. I partiti sono in concorrenza con le lobby dell’industria, della finanza, del commercio e via discorrendo per reclutare dirigenti, quadri e personale con profili analoghi. Anche ove i partiti potessero avere la prima scelta (le lobby pagano di più e offrono carriere più stabili), decidono di reclutare i mediocri al fine di evitare che i loro leader siano minacciati, o meglio insidiati, dall’interno. Per questo, i loro dirigenti sognano di essere invitati a cena nei salotti buoni delle banche e della finanza.

Più che azionisti di riferimento di una “merchant bank” casereccia, si pongono come subappaltanti di chi le “merchant bank” (anche a cacio e pepe) congettura (a torto o a ragione) di controllarle. Ne risultano governi di subappaltanti. Ciò non solo ha aspetti che interessano i politologi (può esistere una democrazia in subappalto?), ma anche dimensioni nel campo degli economisti. Un Governo in subappalto, infatti, ha difficoltà a decidere; si potrebbe dire che ciò è dimostrato dalle vicende italiane degli ultimi 14 mesi. In un mondo dove tutti corrono, chi non decide al più cammina – quindi, rispetto agli altri sta fermo. Un’analisi della London Business School, della Boston University e della Harvard Business School conclude che l’onere è pari allo 0,6% delle risorse di famiglie e imprese – una vera pietra di piombo. Cari subappaltanti, quanto ci costate!