Ridicoli sì, irrilevanti no. Insomma: siamo l’Italia, non la Grecia. Atene la puoi commissariare con tre vigili urbani, se ci provi con Roma rischi di farti male. In termini brutali, è tutta qui la ragione per cui ieri – finalmente – sia il ministero dell’Economia a Roma che la Commissione europea a Bruxelles, pur se con la prontezza di riflessi di un bradipo, hanno finalmente deciso di spargere un po’ di rassicurazioni su quella polveriera in procinto di esplodere che sono la Banca Popolare di Vicenza – che proprio ieri ha celebrato un suo ennesimo, interlocutorio consiglio d’amministrazione – e la consorella nel regionalismo e nelle grane Veneto Banca.



A denti stretti, infatti, e dopo settimane e anzi mesi nei quali il bagnomaria di incertezze in cui sono state lasciate le due banche e il Montepaschi ha determinato una vertiginosa corsa al ritiro dei depositi e alla chiusura dei conti, gli “eurocrati” hanno sillabato che “per quanto riguarda la situazione di Vicenza e Montebelluna la Commissione Ue, il Single Supervisory Mechanism e le autorità italiane lavorano fianco a fianco. Sono in corso contatti costruttivi per raggiungere una soluzione per le due banche in linea con le regole Ue, senza il bail-in degli obbligazionisti senior. I depositanti saranno in ogni caso pienamente garantiti”. Evviva.



Proviamo a capire cos’è realmente accaduto, postulando che le interpretazioni più malevoli sono forse le meno esatte, perché oggi nell’operatività degli uffici europei alla capziosità di derivazione tedesca si sovrappone, soverchiante, una monumentale inefficienza e farraginosità operativa, da assoluta mancanza di “manico”. Dunque, la Commissione – e segnatamente la direzione DgComp, che dovrebbe sovraintendere alla competitività del sistema – ha incassato senza fare una piega, alla fine dello scorso dicembre, il decretone populista con il quale il neo-insediato governo Gentiloni ha stanziato 20 miliardi di euro per ricapitalizzare, e dunque nazionalizzare, le tre grandi ammalate (a oggi) dell’industria bancaria italiana: appunto le due venete e il Montepaschi. Non ha fatto una piega perché tanto, ormai, un Paese membro se vuole poter usare i propri soldi pubblici, subordinati quindi ai voleri di Bruxelles, deve passare dagli uffici comunitari per l’avallo di ogni passo successivo: e quindi una specie di informale e preliminare nulla osta, come fu quello dicembrino, non si nega a nessuno. Tanto poi a Bruxelles si deve tornare, e sempre col cappello in mano.



I dolori sono però arrivati dopo, quando cioè dal ministero dell’Economia sono iniziati a partire verso Bruxelles appunti più o meno particolareggiati circa quello che è – e “non può non essere” – un vero e proprio salvataggio di Stato, come quelli fatti nel 2012-2013 dalla Germania (spendendo 660 miliardi!) o dalla Francia (con un centinaio) e da tutti gli altri Paesi europei, mentre il governo Monti – imbarazzato come un’educanda, ansioso di farsi perdonare il nostro megadebito pubblico dai suoi ex-colleghi di Bruxelles – pensava solo a tartassare il Paese – esercizio necessario ma doloroso -, anziché provvedere anche a mettere in sicurezza il sistema bancario.

Quella fase storica ha lasciato che le regole di Basilea venissero scritte su misura per la Deutsche Bank e alcune altre grandi banche di impostazione anglosassone, piene di buchi da derivati e non da sofferenze, consentendo i primi e colpendo le seconde con i parametri vincolanti di svalutazioni patrimoniali; e insomma, per omissione e acquiescenza politica, quell’esecutivo ha lasciato scappare i buoi dalla stalla. Impossibile oggi rimetterceli. Impossibile anche, però, per l’Europa – e per fortuna -permettere che avvenga in Italia una crisi bancaria epocale, con tre fallimenti, che metterebbe in ginocchio la nostra incipiente ripresa economica e si riverberebbe su tutta l’Eurozona. 

E qui bisogna riallacciarsi al parallelo con la Grecia. Noi non siamo “più stimati” dei confusionari pataccari ateniesi, capaci di falsificare il bilancio pubblico: siamo ormai considerati alla stessa stregua, soprattutto dai tedeschi. Ma della Grecia ci si può far beffe, dell’Italia no. Una Italexit, quale quella più o meno predicata da Lega e Cinquestelle, sarebbe insostenibile per tutta la costruzione europea. La Grexit, invece, di fatto, Bruxelles l’ha già bella e imposta! Quindi l’unica strada è stata e sarà quella di imporre all’Italia una buona dose di “purga”, tuttavia sostenibile a fronte di ogni “permesso”. E così si spiega questo capriccetto europeo di pretendere che i “privati” mettano un miliardo e 200 milioni di euro nelle due banche venete prima che lo Stato intervenga.

Intesa e Unicredito non potevano sottrarsi. La prima è una delle banche europee più solide. L’altro è stato rifinanziato da poco ed è oggi ben guidato. Ma attenzione: dietro quest’apparente scontro politico comunitario c’è anche soprattutto una partita a poker di potere. Una cosa è chiara, infatti: se le due banche venete venissero lasciate fallire col bail-in, i miliardi di bond da esse emessi con garanzia statale non potrebbero essere certo restituiti, o lo potrebbero forse in minima parte, dunque lo Stato dovrebbe onorare le garanzie. Il rientro della clientela dai fidi in essere creerebbe ripercussioni a catena nel sistema economico, e quindi ammanchi e sofferenze, con esigenza di nuova cassa; i depositi andrebbero tutelati con l’intervento del Fondo di garanzia, che però non ha soldi in cassa, e dovrebbe drenarne al sistema bancario, per cui di fatto le grandi banche sarebbero comunque chiamate a svenarsi…

Insomma: un bail-in delle due venete non conviene a nessuno, perciò non ci sarà. L’ingresso dei privati sarà un proforma. E le due banche faranno la fine di Alitalia: una lunga e lenta eclissi sovvenzionata dallo Stato!