Una delle cose più importanti che ho imparato da quando ho cominciato a trattare temi economici e finanziari è la necessità di comportarsi come il comandante di una nave che veleggia tra i ghiacciai: mai guardare la punta dell’iceberg come riferimento, preoccuparsi di cosa sta sotto il pelo dell’acqua. In tal senso, è fondamentale il concetto di proxy, ovvero accadimenti apparentemente slegati tra loro che, però, convergono verso lo stesso fine attraverso strategie e piani di evoluzione completamente differenti. Ci sono, ad esempio, le guerre proxy o per procura, conflitti diretti fra due soggetti che sottendono però un’altra guerra più importante, quella troppo grossa da poter essere combattuta a viso aperto e direttamente: cioè, quella tra gli sponsor di chi combatte sul campo. Ma ci sono anche le operazioni politiche proxy, ovvero finalizzate a influenzare l’esito di una campagna elettorale o di una determinata scelta di impostazione che qualifichi l’azione di un governo.
Ora, cosa vi stanno dicendo in continuazione da quando il referendum britannico ha sancito la vittoria del Brexit? Che il problema maggiore e di più urgente risoluzione è quello dello status dei cittadini/lavoratori europei residenti nel Regno Unito, spaventati da quello che potrebbe essere il loro futuro dopo l’addio ufficiale di Londra all’Ue. Terrorismo mediatico? In parte sì, occorre ammetterlo. E la riprova è data da questo grafico, pubblicato proprio ieri da Statista: da dopo il Brexit, è cresciuto in maniera spropositata il numero di cittadini inglesi intenzionati a prendere la cittadinanza tedesca, perché spaventati dai possibili fall-out economici e sociali dell’addio a Bruxelles. Anche in questo caso, terrorismo mediatico allo stato puro, visto che nemmeno sono iniziate le trattative post-attivazione dell’articolo 50. Il dato arriva dall’Ufficio federale di statistica tedesco, l’Istat di Berlino e ci dice che l’aumento su base annua delle richieste di cittadinanza tedesca nel 2016 è stato del 360% rispetto al 2015, in totale 2.865. Direte voi, un granello di sabbia rispetto ai 65 milioni di abitanti del Regno Unito: vero, ma quella gente dubito faccia parte della classe operaia, sono quasi certamente professionisti, molti operatori della City, pronti a volare a Francoforte, se il Brexit diventasse hard nelle trattative e il portafoglio finanziario di Londra finisse nel mirino. Se ne va e si dice pronta a diventare tedesca la classe dirigente e produttiva del Paese, un segnale magari simbolico nei numeri, ma non certo nel senso profondo a livello sociale.
Ora, come mettete in prospettiva questa dinamica con la meteoritica rimonta di Jeremy Corbyn alle elezioni e con l’impasse che sta portando verso le dimissioni Theresa May, dopo il voto di giovedì scorso, tanto che la Regina ha irritualmente dovuto rimandare il Queen’s speech atteso per lunedì di questa settimana? E non vi pare strano che, al netto di decine di chiavi di lettura rispetto a quanto accaduto nelle urne britanniche, la stampa europea abbia subito concentrato la sua attenzione su un unico dato, ovvero l’omofobia e la posizione anti-abortista del Dup, il partito nordirlandese unionista che con i suoi 10 seggi poteva permettere alla May di tentare la formazione di un governo? Nessuna analisi politica reale, si va dritti alla pruderie di genere, ciò che fa sensazione nella società dei diritti.
Cosa voglio dire? Che la Germania sta cercando di sfruttare l’acuirsi della crisi europea per diventare ancor più egemone, forte del suo rinnovato asse renano con la Francia di Emmanuel Macron, il quale gode di potere assoluto dopo il voto alle legislative e con il prolungamento dello stato di emergenza fino al 1 novembre prossimo. Ma ci sono altri proxy a conferma di quanto sto dicendo, ad esempio un paio di atti compiuti nelle ultime 36 ore dalla Germania che non solo confermano indirettamente la mia tesi, ma aprono un inquietante interrogativo: quanto è grave la crisi europea, se per vedersi garantito un po’ di atteggiamento da colomba all’ultimo board della Bce, oggi Mario Draghi tace di fronte a quanto Berlino sta mettendo in campo?
Partiamo dalla Grecia, sul cui destino si è rinnovata l’altro giorno la battaglia tra Germania e Fondo monetario internazionale, di fatto tenendo accesa una potenziale miccia per una crisi tardo estiva o autunnale. Il Parlamento ellenico ha votato un paio di settimane fa l’ennesima manovra lacrime e sangue (4 miliardi tra nuove tasse e tagli alle pensioni) imposta dall’ex-Troika, ma a qualcuno ancora non basta: «Noi abbiamo fatto la nostra parte, ora tocca ai creditori fare la loro», aveva dichiarato Alexis Tsipras dopo il voto, convinto che l’ok all’austerity supplementare fosse il viatico per il via libera al taglio del debito e l’inclusione dei titoli di stato del Partenone nei piani di riacquisto della Bce. Ma a mettere un paletto con scritto “Alt” ci ha pensato come al solito proprio Berlino, la quale non intende cedere nulla ad Atene fino al 24 settembre prossimo. Ovvero, per mere esigenze elettorali interne. Peccato che il Fmi abbia detto chiaro e tondo che non sborserà nemmeno un dollaro senza un taglio deciso all’esposizione debitoria. Sintesi? Impasse, pagata senza sconti del popolo greco.
E non lo dico io, lo ha confermato all’Osservatore Romano, monsignor Sevastianos Rossolatos, arcivescovo di Atene e presidente della Conferenza episcopale greca: «Abbiamo bisogno che l’Unione europea ci tratti non come numeri ma come persone. Come diocesi greche stiamo chiedendo aiuto alle Chiese sorelle d’Europa. Poche quelle che ci stanno aiutando, tra queste sicuramente la Cei, attraverso la Caritas». E ancora: «La Grecia è schiacciata in questo momento. Scontiamo scelte politiche sbagliate. La crisi economica non è caduta dal cielo, è indubbio. Molti si sono tolti la vita per la disperazione. Questo ci fa soffrire. Da tre anni la situazione è peggiorata. Le diocesi traggono i loro redditi dagli affitti di immobili di proprietà. Purtroppo non tutti riescono a pagare e con le tasse non riusciamo a far fronte ai bisogni».
Dubito che a Berlino qualcuno abbia orecchie così sensibili da poter ascoltare. E l’Eurogruppo, infatti, si prepara infatti a dare l’ok a un compromesso al ribasso: i ministri delle Finanze daranno luce verde all’esborso di una nuova tranche di aiuti, necessari per pagare i 7,5 miliardi di prestiti in scadenza a luglio (quindi nulla resterà a beneficio dell’economia ellenica, solita partita di giro), riconoscendo l’ennesimo sforzo dell’esecutivo greco, ma scordiamoci decisioni significative sul fronte del debito, al netto del nein tedesco. Ma cosa farà ora Alexis Tsipras, il quale aveva promesso al Paese che i nuovi sacrifici avrebbero garantito il taglio al debito e l’aiuto della Bce sul fronte del Quantitative easing? Il presidente del Consiglio di Atene – in pesante ritardo nei sondaggi rispetto al centrodestra di Nea Demokratia – potrebbe puntare i piedi e dire no, portando così il tema Grecia sul tavolo del summit dei leader continentali del 22 giugno. Ma con le scadenze sui prestiti da rimborsare ormai alle porte, anche i margini di manovra per Tsipras non sono molti: quindi, quale epilogo? Magari una mossa a sorpresa di Mario Draghi alla riunione del board di settembre: includere unilateralmente come Bce i titoli greci nel programma Pspp, di fatto garantendosi una nuova platea di debito eligibile all’acquisto a fronte della scarsezza di bond, di acquisti sempre più a breve termine sulla curva della maturity e della necessità di portare avanti il programma di Qe ben oltre fine anno.
La Germania lo permetterà? Formalmente no, ma ecco il secondo atto di rottura di cui vi parlavo prima. Il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, ha infatti bocciato l’idea della Commissione europea di creare un nuovo strumento di emissione di debito comune: «Questo tipo di obbligazione emessa da un’istituzione europea, denominata European Safe Bond – ha avvertito il banchiere centrale tedesco in occasione di una tavola rotonda per i 60 anni della Bundesbank – potrebbe essere interpretata come un passo verso gli Eurobond, cioè uno strumento di mutualizzazione del debito». Stando a Weidmann, «per evitare questa percezione, gli European Safe Bond dovrebbero essere concepiti da attori di mercato». Il numero uno della Bundesbank ha aggiunto che «limitare l’esposizione al debito sovrano dei bilanci delle banche sarebbe uno strumento più efficace per diversificare i rischi e contribuire alla stabilità finanziaria».
Insomma, decide Berlino il futuro economico e fiscale dell’Ue. Intanto, il vicepresidente della Bce, Vitor Constancio, ha dichiarato che «la discussione sul tapering potrebbe essere in autunno, in ogni caso prima della fine dell’anno. E, comunque, il Quantitative easing avrà un futuro». Insomma, do tu des tra Berlino e Francoforte, gli altri si adeguino. Anche perché sia Draghi che Weidmann sanno quale sarà il loro futuro: il primo a fare il premier italiano o il “convitato di pietra” di un probabile governo Prodi post-crisi autunnale, il secondo proprio a capo della Bce.
La Germania sta dando le carte, il mazziere è entrato nella fase operativa del progetto. Nessuno, a oggi, pare opporvisi.