“Nessun licenziamento, è una diffamazione!”, tuonò Bernardo Caprotti, una dozzina d’anni fa, quando un giornale pubblicò in esclusiva (bei tempi, la Rete non aveva ancora bruciato il valore di qualsiasi scoop…) la notizia che il figlio Giuseppe, amministratore delegato del gruppo Esselunga, era stato licenziato insieme a una squadra di top-manager assunti da lui.



La causa per diffamazione venne intentata dal geniale tycoon della grande distribuzione contro quel giornale, e regolarmente perduta, perché era vero che il licenziamento tecnicamente non c’era stato — Caprotti Junior non era un dipendente del gruppo bensì solo un amministratore della società, e come tale non poteva essere tecnicamente licenziato — ma in sostanza sì, e ovviamente la sostanza dei fatti prevalse. Ma quella brutta storia — un primogenito maschio usato e gettato a dispetto del vivace talento dimostrato sul campo e ogni dialettica gestionale azzerata — segnò la frattura irreversibile tra il fondatore e la sua prole…



Negli ultimi mesi della sua lunga vita di successi imprenditoriali Caprotti aveva deciso di vendere l’Esselunga, neanche considerando la possibilità che dopo di lui i figli continuassero. O gestendo, come pure talvolta capita nelle dinastie imprenditoriali; o almeno controllando e scegliendo bene i manager, come sta facendo John Elkann a capo della famiglia Agnelli.

Caprotti, no. Nel corso della sua lunga e straordinariamente brillante carriera imprenditoriale, l’uomo è sempre stato un assoluto autocrate. Insofferente a qualsiasi critica, padre padrone, controller infaticabile dell’azienda — mitiche le sue ispezioni a sorpresa, spesso camuffato, nei supermercati di mezza Italia — ha costruito un impero sull’efficienza e sull’ottimale rapporto prezzi-qualità. Beniamino dei consumatori, bestia nera dei concorrenti — innanzitutto la Coop, ma di questo val la pena parlare — ha condotto la sua impresa quasi fosse stato da sempre convinto che “dopo di lui, il diluvio”.



E invece no. La storia s’incaricherà di dirci con quali esiti, ma Giuliana Caprotti, la vedova, e la figlia Marina, titolari oggi del 70% di Esselunga, hanno detto no. No alla vendita: “In relazione ai recenti articoli di stampa desideriamo precisare a tutti Voi che l’Azienda non è in vendita”, hanno scritto in una lettera rivolta ai dipendenti del gruppo. I 7,3 miliardi di euro offerti dal colosso cinese Yida Investment Group, che appartiene al giovane finanziere Yida Zhang, non sono una sufficiente lusinga. 

Chissà, forse gli eredi hanno voglia di mettersi in gioco. O semplicemente non si mettono d’accordo su come spartire il ricavato. Si vedrà.

Di fatto, l’incapacità di programmare il passaggio generazionale è una delle note distintive della nostra imprenditoria familiare. E trova nel caso di Caprotti la sua apoteosi.

L’inventore di Esselunga aveva delle “fisse” che nessuno dei suoi collaboratori osava contestare. L’idiosincrasia per i figli. L’odio verso le Coop, che lo indussero a scrivere il celebre libro-denuncia Falce e carrello, contro gli asseriti conflitti d’interesse della “sinistra di governo” verso il movimento delle cooperative rosse; e la passione per lo sfumato progetto della trasformazione dell’aeroporto di Montichiari in quello scalo internazionale che, a suo avviso, la Malpensa non era e non è.

Ma la cifra di Caprotti è stata anche quella — ed in fondo è giusto ricordarlo così — dell’unico imprenditore italiano della distribuzione a riuscire a costruire un impero in anni in cui prosperavano realmente solo le coop e gli stranieri iniziavano a entrare in forze sul nostro mercato. Con sagacia, acume, furbizia e presenza, presenza, presenza.

Peccato gli sia mancato quel “quid” che avrebbe oggi posto l’Italia al riparo dall’ennesima cessione all’estero di un asset strategico, strategico perché la distribuzione alimentare è funzione diretta della prosperità degli operatori… Il quid di chi genera per l’avvenire, e non solo per la propria finestra di vita.