“Il salvatore dell’Europa?”. Così recita, con un prudente punto interrogativo, la copertina di The Economist dedicata a Emmanuel Macron raffigurato mentre cammina sulle acque. Quando il gioco si fa duro, è saggio ricorrere allo humour, una virtù britannica che per ora non si è smarrita nelle nebbie della Brexit, stagione politica che ha regalato a Londra instabilità politica, insicurezza e perfino una desolante inefficienza nei soccorsi che mal si concilia con l’immagine del Regno Unito. Al contrario, il neo presidente francese si accinge a celebrare un foudroyant nuovo successo elettorale domenica alle urne, che gli consegnerà le chiavi del Parlamento francese per la prossima legislatura. Meno di cento giorni fa la Francia era a metà del guado, insidiata dal bellicoso programma anti-euro del Front National. A Londra, intanto, Theresa May dettava all’Europa le sue condizioni della hard Brexit, spalleggiata dall’ambasciatore designato da Donald Trump per Bruxelles, che comunicava sui giornali la convinzione che la scomparsa dell’Ue fosse solo questione di tempo.
Ma le cose sono andate in maniera assai diversa da quella sperata e prevista a falchi di Londra e di Washington, oggi troppo impegnati a fronteggiare le accuse del Russiagate per dare corpo alle minaccia di guerra commerciale alla Germania. A Londra le cose vanno ancora peggio: la spaccatura del Board della Bank of England sui tassi (la linea di non alzare il costo del denaro è passata 5 a 3) simboleggia l’incertezza del Paese, diviso tra la volontà di sostenere l’export e il turismo con il pound debole, ma preoccupato per l’ascesa dell’inflazione e lo shopping delle multinazionali a basso prezzo di aziende e beni immobiliari. Oltre a infiniti danni collaterali.
In questa cornice l’invito di Macron al Regno Unito di tornare sui suoi passi riparando la frattura con Bruxelles è molto di più di un gesto politico a effetto. Poche ore prima l’uscita del presidente francese, il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble aveva espresso lo stesso augurio in un’intervista rilasciata a Bloomberg. È un’eloquente conferma che si è ricompattato l’asse di comando dell’Eurozona, da sempre rappresentato da Parigi e Berlino. Anzi, dopo a grande paura dei mesi scorsi, i due leader dell’Eurozona hanno deciso di accelerare sulla strada dell’integrazione: difesa, mercato del lavoro, presto le prime prove di integrazione del diritto societario in vista di un salto di qualità nell’alleanza tra i Paesi del “nucleo duro”, senza farsi troppo condizionare dalle resistenze dell’Europa dell’Est che, se vorrà, potrà seguire più avanti, L’importante è che il Vecchio continente sia cosciente che “d’ora in poi dovrà fare da solo”, senza fare affidamento sull’ombrello americano, come ha sottolineato Angela Merkel dopo l’ultimo incontro/scontro con Trump.
A confortare la squadra europea concorrono alcune novità. Migliora, innanzitutto, lo stato di salute dell’economia. L’ascesa del mercato dell’auto, tornato a maggio sopra i livelli del 2007, prima dello scoppio della crisi, è l’ultimo segnale di quella che il Wall Street Journal ha battezzato “l’euroforia”. Sostenuti dalla spinta dell’export e dalla politica espansiva della Bce, i Paesi dell’Eurozona ritoccano all’insù le stime della crescita. Perfino la Grecia potrebbe salire quest’ano oltre l’asticlla del 2%, imitando Spagna, Portogallo e Irlanda. “Il quadro è incredibilmente solido”, si spinge a dire il chief economist della Bce, il belga Peter Praet.
L’economia, ma non solo, spiega i forte recupero di popolarità dell’idea europea nei 28 Paesi. Il Pew Research Center, centro studi di Washington, ha diffuso ieri sera una ricerca intitolata «Dopo la Brexit gli europei sono più favorevoli all’Ue». Il sondaggio è stato condotto su un campione di 9.935 persone in Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Italia, Paesi Bassi, Polonia, Spagna, Svezia e Regno Unito, dal 2 marzo al 17 aprile 2017, quindi quasi un anno dopo il referendum britannico. Nell’ultimo anno, l’opinione nei confronti dell’Unioneeuropea è migliorata in quasi tutti i Paesi, ed è maggioritaria ovunque tranne in Grecia. I più favorevoli all’Ue sono i cittadini di Polonia (74%), Germania (68%), Ungheria (67%), Svezia (65%), Olanda (64%), Spagna (62%), Francia (56) e anche Regno Unito (54%), dove sembra farsi strada una forma di pentimento dopo la vittoria del Leave.
Ma c’è un’eccezione: l’Italia. Nel Bel Paese il gradimento per l’Europa è ancora maggioritario (il 56%), ma in calo. L’economia cresce anche nella Penisola, ma meno che altrove (+1,3% a fine 2017) a un tasso comunque insufficiente a spezzare il circolo vizioso provocato da un tasso nominale di crescita inferiore a quello dell’aumento del debito. Di qui una sensazione di incertezza e sfiducia alimentata da ritardi e tentennamenti nella questione bancaria.
Non illudiamoci che la ripresa politica ed economica dell’euro ci possa spingere fuori dalla crisi per inerzia. Anzi. La convinzione profonda dell’asse renano è che non ci sia più tempo, né spazio per nuovi indugi. “I paesi che sono andati più avanti sulla strada delle riforme – è il commento di un report di Exane Paribas – sono quelli che registrano i risultati migliori, Si smentisce così l’idea che le riforme strutturali producano risultati solo nel lungo termine”. Inoltre, la stagione fortunata dell’area euro è, in un certo senso, un’arma a doppio taglio: in caso di successo degli euroscettici in Francia, il voto italiano nel 2018 avrebbe avuto il sapore dell’ultima spiaggia. Così, invece, un’eventuale e velleitaria frattura italiana danneggerebbe solo noi.
Non a caso le banche dell’eurozona non hanno in pratica rapporti di debito/credito con le nostre mentre il rischio default segnalato dai cds si mantiene su valori storicamente alti. É il momento di cambiar marcia. Non inventiamoci più, per favore, ricatti dall’estero o chissà quali panzane accreditate dai cantastorie.