La conferma è arrivata giovedì scorso: si terrà oggi il primo round negoziale tra Ue e Gran Bretagna per la Brexit. A renderlo noto, il Dipartimento britannico per l’uscita dall’Ue e la Commissione europea, in una nota congiunta: «Il capo negoziatore della Commissione, Michel Barnier, e il segretario di stato per l’uscita dall’Ue, David Davis, hanno concordato oggi di lanciare lunedì il negoziato per l’Articolo 50». Insomma, formalmente oggi si parte. Ma in quale clima? Caos totale. Un qualcosa che, di fatto, gioca a favore di chi il Brexit intende boicottarlo fino all’ultimo secondo possibile. Mettiamo in fila qualche fatto. Ho atteso fino adesso a toccare l’argomento, vista la sua delicatezza, ma ormai il quadro appare delineato: l’incendio della Grenfell Tower a Londra rischia di diventare un’altra Bonfire night, un evento spartiacque nella politica britannica. Analizzando la situazione, emergono alcuni punti chiari.
Primo, Theresa May ha dimostrato di non saper fare il primo ministro, visto che il suo atteggiamento da perito dell’assicurazione di fronte a una tragedia che ha segnato il Paese, la sta travolgendo politicamente, con manifestazioni sempre più rabbiose – ancorché, per ora, pacifiche nel complesso – che chiedono il suo addio da Downing Street. Secondo, Jeremy Corbyn sta sfruttando questo malcontento in maniera vergognosa, ma nessuno sembra volerlo accusare di questo: nel Paese che si è stracciato le vesti per Matteo Salvini che va ospite in un talk-show con i doposci, perché in arrivo dalle zone terremotate, nessuno ha avuto nulla da ridire per un leader politico che sta strumentalizzando morti e feriti in maniera talmente palese da rasentare il parossismo. A quanto pare, per Repubblica e soci, ci sono sciacalli e sciacalli. Il tutto, senza menzionare il fatto che sia stata proprio la retorica da Terza Internazionale di Corbyn – «Occorre requisire le case di lusso sfitte a Kensington» – a scatenare l’assalto di venerdì alla Kensington City Hall, prodromo dell’ondata di sdegno nazionale che rischia di travolgere il governo.
E ieri, il Daily Telegraph, quotidiano conservatore e filo-governativo, sparava in prima pagina la notizia di un complotto già pronto all’interno dei Tories e nei ranghi del governo per far saltare Theresa May, se quest’ultima scegliesse, a partire dall’incontro di oggi, un approccio da soft Brexit, spinta anche dal momento difficile a livello di politica interna. E per capire cosa intendo, basta tornare a sabato scorso, quando la Regina Elisabetta, accompagnata dal marito, il duca Filippo di Edimburgo, si è unita al silenzio delle persone raccolte davanti a Buckingham Palace, in occasione della celebrazione del suo compleanno. Elisabetta, in una dichiarazione senza precedenti, ha diffuso una nota in cui ha sottolineato che è difficile evitare «il clima cupo» che vive il Regno Unito dopo le tragedie di questo anno, come gli attentati terroristici di Londra e Manchester e, appunto, il recente incendio del grattacielo residenziale nella capitale. Oggi è «tradizionalmente una giornata di celebrazioni. Quest’anno, tuttavia, è stato difficile sfuggire al clima cupo nazionale. Negli ultimi mesi il Paese è stato testimone di una successione di tragedie terribili. Come nazione, continuiamo a meditare e pregare per tutti coloro che sono stati direttamente colpiti da questo evento anche se il nostro Paese rimane risoluto davanti alle avversità»
Un atto così sentito, una partecipazione così diretta della Regina, ormai molto avanti con gli anni, nella vita pubblica britannica non si registrava dalla morte di Lady Diana. La sovrana ha capito che la situazione è grave e che la nazione ha bisogno della sua guida. E, soprattutto, della sua forza d’animo. «Clima cupo» delinea scenari nefasti, non è soltanto la presa d’atto di un momento di difficoltà: in Gran Bretagna sta accadendo qualcosa di serio che riguarda l’intera Europa. Se non, addirittura, una parte di destino del mondo in questa «Terza guerra mondiale a pezzetti», come l’ha chiamata Papa Francesco. Siamo onesti: qualcosa di molto grave è accaduto a Londra. Ieri, Scotland Yard ha aggiornato il bilancio della tragedia di Grenfell Tower: 30 vittime accertate e 58 dispersi, anch’essi «presumibilmente morti». In quel grattacielo popolare abitavano all’incirca 450 persone ed è stato ridotto a un cerino consumato: come è possibile una contabilità così bassa? Perché da giorni ci si rimpallano responsabilità e si squadernano numeri senza senso? Sabato, poi, SkyTg24 ha intervistato uno dei vigili del fuoco che ha operato nei momenti peggiori dell’incendio, il quale ha sottolineato di non aver visto nulla di simile in 15 anni di carriera: «Sembrava un’esplosione», ha dichiarato. Parliamoci chiaro, un cortocircuito determinato da un frigorifero difettoso al quarto piano di un palazzo simile non può dar vita a quella pira. Ve lo dice qualsiasi ingegnere: senza un accelerante, quel rogo non può svilupparsi. Punto. E poi, visto che i giornali inglesi hanno intervistato il taxista di origine etiope dal cui appartamento sarebbe partito il rogo, perché venerdì Scotland Yard ha detto che va escluso il dolo «per il momento»? Se c’è il responsabile inconsapevole reo confesso, cos’altro vieta di affermare che il dolo è assolutamente escluso?
E poi, sempre dal racconto del padrone di casa e dalla conferma arrivata dai servizi di emergenza, dalla chiamata di aiuto partita alle 00.04, sono intercorsi solo 6 minuti prima dell’arrivo dei primi soccorsi: come può propagarsi un incendio in quel modo in così poco tempo? E, state certi, non è stato il materiale di coibentazione della facciata, ristrutturata l’anno scorso, a generare e far propagare quell’inferno. Almeno, non da solo. Una cosa è chiara: Grenfell Tower rappresenta uno spartiacque. E ciò che deve dividere è il corso della storia europea: perché l’intera vicenda si riduce a questi due grafici. E cosa ci dicono? Che nonostante tutto, nonostante i timori per il futuro, le elezioni terminate senza una maggioranza qualificata in Parlamento, le “minacce” dell’Ue sui costi dell’uscita dall’Unione, il destino della City come hub finanziario a rischio, i britannici vogliono andarsene. E lo vogliono fare in maniera hard, senza troppi compromessi. Esattamente ciò che vogliono i frondisti Tories intervistati ieri dal Telegraph, i quali sono pronti alla congiura interna se si cederà anche soltanto sulla questione doganale.
Ora, al netto di tutto questo, che tipo di negoziati possono iniziare, a vostro modo di vedere, oggi? Come si presenta la Gran Bretagna a quel tavolo? Socialmente fragile e instabile, senza un governo, con il partito di maggioranza relativa pronto a sfiduciare il proprio leader e premier incaricato e con la sua massima autorità, la Regina, che parla a chiare lettere di «clima cupo». Pensate che sia un capitolo minoritario delle priorità che l’UE sta per affrontare? Non lo è affatto. Perché se la svolta tedesca in politica estera – il duro attacco contro le nuove sanzioni Usa contro la Russia, di cui vi ho parlato sabato – è spiegabile nel breve periodo con i timori prettamente economici legati all’approvvigionamento energetico, la questione della permanenza o meno del Regno Unito nell’Ue è di valore esiziale. Sia per la tenuta degli equilibri con l’altra sponda dell’Atlantico, sia all’interno della Nato, sia per il gioco di sponda che la City garantisce tra Stati Uniti ed Eurozona con il potere di arbitraggio della sterlina e del portafoglio finanziario. Quali carte giocherà la Commissione Ue, sceglierà l’approccio duro già minacciato da Jean-Claude Juncker e dalla stessa Angela Merkel o tenterà una mediazione, usando la comoda carta del rinvio, stante la situazione di instabilità in cui versa l’esecutivo britannico?
Quanto accadrà oggi in sede comunitaria ci dirà molto di cosa ci aspetta, perché era dal 1992 che la Gran Bretagna non arrivava a un tavolo negoziale in condizione di simile debolezza e così tanto nel mirino dei poteri finanziari e non. Lo ha sottolineato anche la Regina: nell’ultimo periodo il Regno Unito è stato preso di mira da una serie di eventi funesti senza precedenti. Casualmente, tutti avvenuti dopo il voto a favore del Brexit. Il quale, è giusto ricordarlo, arrivò dopo un omicidio a sfondo politico il giorno prima del referendum: un omicidio di cui nessuno ha più parlato. Non si tratta di essere dietrologi per impostazione mentale o per vanità di apparenza, è la logica che impone di dire che qualcosa non funziona nella narrativa ufficiale dei fatti: da Manchester in poi, tutto fa pensare a una regia precisa. Cosa hanno garantito, infatti, quegli attentati? L’attacco al concerto di Ariana Grande ha semplicemente devastato la credibilità dell’intelligence interna ed estera britannica, aprendo una guerra di spie con gli Usa e all’interno degli stessi MI5 e MI6. E l’attacco a Tower Bridge e Borough Market? Ha, di fatto, veicolato il voto dell’8 giugno, spingendo la May su posizioni così estreme – «Sono pronta a calpestare i diritti civili per battere il terrorismo» – da mettere ulteriormente il turbo alla rimonta meteoritica di Jeremy Corbyn, un vecchio attrezzo marxista, diventato di colpo il nuovo che avanza e il salvatore della patria.
Se quanto sta accadendo con il Russiagate ci ha dimostrato senza più ombra di dubbio l’esistenza e il potere d cui gode il cosiddetto Deep State, quanto sta accadendo nel Regno Unito è la riprova che i corpi intermedi dello Stato – agenzie di intelligence, esercito, media, comparto bellico-industriale – sono attivi con una loro agenda anche in Gran Bretagna. Di più, in Europa. Perché è proprio per evitare che Londra e Bruxelles si dicano addio e per vanificare i numeri dei sondaggi di prima che stiamo assistendo a questo «clima cupo». La Regina ha capito, altrimenti non avrebbe mai messo in fila una serie di irritualità sul protocollo come quelle compiute nel fine settimana appena concluso.
Attenzione ai messaggi subliminali che arriveranno dall’apertura dei negoziati di oggi: potrebbero darci molte più risposte di tante indagini.