Rientrato, almeno a livello di sovraesposizione mediatica, lo scontro fra Donald Trump e Angela Merkel dopo il G7 di Taormina, il presidente Usa non perde comunque tempo per restare sempre sulla bocca di tutti. Tra tweets demenziali e attricette liberal che inscenano la sua decapitazione, non passa giorno che Dio mandi in terra senza che l’inquilino della Casa Bianca non sia sulla prima pagina dei giornali o sulle homepage dei siti di informazione. C’è però anche dell’altro e di più serio che riguarda Trump, ovvero le inchieste relative al cosiddetto Russiagate: l’altro giorno, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale, Mike Flynn, ha confermato che il 6 giugno farà giungere al Comitato per l’intelligence del Senato i documenti finanziari relativi ai suoi rapporti con controparti russe, questo dopo aver risposto picche a quattro inviti a comparire per essere audito. Di più, torna in auge anche James Comey, l’ex capo dell’Fbi che ha dato vita all’ennesima capriola: ora la sua versione è tornata quella delle pressioni dirette del presidente affinché abbandonasse le indagini proprio su Flynn, comunque defenestrato dall’amministrazione per aver mentito al vice-presidente, Mike Pence, sui suoi rapporti con l’ambasciatore russo a Washington. Insomma, una spy story politica con i fiocchi che potrebbe portare, alle sue estreme conseguenze, all’impeachment del presidente. 



Proprio sicuri? Bon Scott è non solo un supporter di Trump e un seguitissimo commentatore del mondo libertario americano, ma, nella sua schiettezza, anche un esperto costituzionale e la scorsa settimana ha così risposto a chi gli chiedesse conto della probabilità dello stato d’accusa per il tycoon newyorchese: «Se dovesse scattare l’impeachment, 10 milioni di persone marcerebbero su Washington. Saranno pesantemente armati e io sarò uno di loro. Non si scherza». Tanto per farvi capire che Scott non è un fanatico estremista, ecco cosa scrisse nel febbraio 2016: «Trump può vincere. Ignorate i sondaggi, perché questi sono senza significato in un’elezione con così tanti eventi potenziali da shock. La verità è che Donald Trump può vincere le elezioni a valanga». 



Veramente si rischia una seconda guerra civile americana? Davvero così tanta gente sarebbe pronta a difendere con le armi il presidente eletto? E, se sì, dove cova, da dove nasce questa rabbia, capace di sfociare in rivolta? Semplice. Per quanto la tv e la Rete ci mostrino Paesi del Terzo Mondo per dimostrare il concetto di disgregazione e disuguaglianza sociale, gli Usa sono archetipo e paradigma di quella condizione a livello globale, la plastica dimostrazione che la contrapposizione post-2007 tra elites – il famoso 1% – e popolo – il 99% – è non solo viva, ma lotta insieme a noi. E non servono dotti report della Fed o studi comparati della facoltà di economia di Harvard, basta fare come ha fatto Charles Hugh Smith: crearsi dei propri indici di valutazione e calcolo dell’inflazione e del potere d’acquisto reali. 



Il più importante è il Burrito index, il quale dovrebbe misurare l’inflazione del mondo reale attraverso l’evoluzione del prezzo di quel tipo panino tex-mex nell’arco del tempo e in contrapposizione con il tasso di inflazione ufficiale. Ma non solo, come vedremo più avanti, ci sono anche altri indici relativi a spese comuni e particolarmente sensibili per le tasche della classe media o bassa, come quelle mediche o per l’istruzione superiore. E cos’ha scoperto, Smith? Stando alle statistiche ufficiali, negli Usa l’inflazione ha ridotto il potere d’acquisto sul dollaro di soltanto il 6% dal 2011 a oggi, poco più dell’1% l’anno: quindi, il calo del potere d’acquisto sarebbe del 27% nei dodici anni iniziati nel 2004, una media del 2,25% annuo. Nel mondo reale, invece, come stanno le cose? Ce lo prova a spiegare il Burrito index: il costo di una tortilla regolare negli Usa era di 1,25 dollari nel 2010, quindi in base alle statistiche ufficiali oggi dovrebbe costare pochi centesimi in più. Invece costa 2 dollari, il 60% in più e sei volte il tasso ufficiale. E un banh mi, il classico snack vietnamita? Nel 2001 costava 1,50 dollari, nel 2004 era salito a 2 dollari e nel 2016 era arrivato a 3,50 dollari. Quell’aumento di 1,50 dollari dal 2004 rappresenta un salto del 75%, quasi il triplo del tasso ufficiale di riduzione del potere di acquisto. 

Vogliamo fare gli avvocati del diavolo e dire che quell’aumento spropositato dell’inflazione reale, pagata dai cittadini medi con una netta erosione del potere d’acquisto, sia limitato al pur fondamentale caso del cibo non preparato in casa, ovvero comprato in ristoranti, fast-food, delis e café? Bene, Smith ha accettato la sfida ed è andato a vedere le dinamiche presenti all’interno di un comparto fondamentale, quello dell’istruzione, che in America è gravato da centinaia di miliardi di debito studentesco per pagare le rette, cui bisogna unire i costi per vivere e studiare (libri, cibo, svago, spese varie o un alloggio fuori dal campus). Bene, parliamo della University of California di Davis: la retta nel 2004 era di 5.684 dollari, mentre nel 2015 era salita a 13.951 dollari. Si tratta di un incremento del 145%, mentre in base ai tassi ufficiali avremmo dovuto attenderci un aumento soltanto del 25%, cioè 7.105 dollari. Anche qui, la discrepanza tra ufficialità e mondo reale è netta. E, spesso, ingestibile per la stragrande maggioranza dei cittadini. La differenza, per un percorso di studi di 4 anni, è di circa 30mila dollari per studente. Ma non basta, perché – forse colto da nostalgia per i bei tempi andati – Smith è andato a fare la stessa comparazione per la sua università, la University of Hawaii di Manoa. Bene, nel 2004 la retta era di 4.487 dollari, mentre nel 2016 era di 10.872 dollari. Anche in questo caso, unite tutte le altre spese legate a studio e mantenimento: spesso e volentieri, quella spesa raddoppia. 

Guardate il primo grafico qui sotto e capirete da soli sia perché grazie all’amministrazione Obama la classe media negli Usa sia sparita (o proletarizzata), sia perché l’America profonda abbia scelto Trump e potrebbe marciare armata su Washington per difenderlo. Ora guardate il secondo grafico, relativo alla grande rivoluzione universalistica della sanità voluta dall’ex presidente, quell’Obamacare che Trump si è mosso subito per smantellare. 

Stando ai tassi d’inflazione ufficiale, i costi per la sanità annuali per una famiglia di quattro persone dovrebbero essere saliti da 12.214 dollari del 2005 agli attuali 15.000 circa di oggi: peccato che, nella realtà, oggi quei costi siano di 25.826 dollari, 10.826 dollari di più. Parliamo di 100mila dollari in più di uscite oltre l’inflazione ufficiale nell’arco di dieci anni. Quindi, quella famiglia americana stile Happy Days con due figli, dovrà unire nell’arco di dieci anni qualcosa come 100mila dollari in più per le spese mediche e 30mila dollari in più di retta universitaria per ogni figlio, vedendo salire il conto di 160mila dollari: gestibile, a vostro modo di vedere? Certo, per l’1% di miliardari che tira i fili e che grazie alle politiche di governo e Fed (gli stessi che hanno creato questo disastro), si sono ulteriormente arricchiti dal 2008 in poi, quell’esborso in più è l’argent de poche, ma per il 99% delle nazione no, è la sottile linea tra solvibilità e povertà. Una condizione, quest’ultima, che la classe media Usa non aveva mai provato dalla crisi del ’29 in poi. Capite perché i lobbisti di Big Pharma, senza stare a evocare complotti sui vaccini, hanno sempre maggiori quantità di denaro a disposizione per corteggiare la politica? E pensate che i rettorati dei college faranno qualcosa per invertire la spirale debitoria in cui cade la stragrande maggioranza dei giovani statunitensi, visto che guadagnano miliardi grazie ai prestiti a garanzia federale per pagare le rette? 

In America la chiamano pay-to-play democracy, traducibile con un più banale “così va il mondo”: ti tocca pagare per avere servizi e se di soldi nei hai pochi, la vita reale ti stronca. Aumentano i costi, ma non migliorano i servizi: ecco come campa l’America delle elites, ecco come si fa business e millanta agli occhi del mondo il benessere di un Paese che invece è diviso e livoroso come non mai. Non vi basta? Non credete a Charles Hugh Smith? Bene, questo grafico arriva da un report ufficiale della Fed. E cosa ci dice? Che il 44% degli interpellati non sarebbe in grado di far fronte a una spesa inaspettata di 400 dollari, come una parcella medica o il costo per la riparazione dell’auto: per risolvere la situazione, dovrebbe chiedere un prestito o vendere qualcosa. 

Di più, poco meno di 1 adulto americano su 4, il 23%, non è in grado di pagare tutte le bollette mensili, mentre il 25% ha fatto saltare alcune spese mediche l’anno precedente. Direte voi, meno male che ci sono i pensionati, gli anziani che con i loro risparmi e le pensioni d’anzianità aiutano sempre di più le famiglia di difficoltà, negli Usa come in Europa. Proprio sicuri? Questo grafico, estratto dall’ultimo studio del World Economic Forum, ci dice non solo che, a oggi, negli Usa i fondi pensione pubblici sono sotto-finanziati per 4 triliardi di dollari, ma che, soprattutto, entro il 2050 a livello globale quel sottofinanziamento potrebbe toccare i 400 triliardi di dollari, stante la dinamica demografica e occupazionale in atto. 

Capito perché Donald Trump potrebbe godere di un suo esercito di privati cittadini in caso di impeachment? E perché, nonostante tutto, i cosiddetti populismi in Europa siano così duri a morire, vedi i Cinque Stelle in Italia, nonostante gaffes e dilettantismo? Rifletteteci su. E ci riflettano soprattutto politici e banchieri, prima che sia tardi.