Cosa vi avevo detto che l’inizio delle trattative per il Brexit sarebbe diventato un dettaglio nella cronaca della giornata di ieri? Eppure si tratta dell’argomento che, formalmente, potrebbe mettere a rischio la tenuta stessa dell’eurozona. Ho fatto una ricerca su Google, inserendo la parola “Brexit”: sono usciti circa 110 milioni di risultati. Eppure, neppure una menzione nei tg, se non per dovere di cronaca. O sui siti di informazione. Ma com’è questa storia, siamo o no di fronte a un atto epocale? È bastato un van che si lanciasse sulla folla a Londra per trasformare lo spartiacque dei destini europei in una notizia da colonna delle brevi? Io sarò anche dietrologo, ma, guarda caso le coincidenze, ogni tanto ci prendo: nell’articolo di ieri lo dicevo chiaro e tondo che attorno al Brexit si sta scatenando un guerra senza frontiere, dentro e fuori la Gran Bretagna. Ed ecco che, con tempismo straordinario salta fuori il primo caso di attentato terroristico a sfondo religioso-razziale perpetrato però da un bianco inglese contro musulmani, con tanto di imam che lo salva dal linciaggio: è quasi commovente, siamo alla versione multiculturale del Mulino Bianco. Chi sia l’attentatore e cosa lo abbia mosso non si sa, la questione fondamentale è che tutti parlano di lui e del suo gesto e non del Brexit. Di più, Scotland Yard, già nelle grane con la tragedia di Grenfell Towers, era titubante nel parlare chiaramente di atto terroristico, ma chi l’ha trascinata a forza verso quella pista e conclusione? Sadiq Khan, sindaco liberal e al contempo musulmano di Londra, il quale già all’alba non sembrava aver dubbi: era terrorismo. Bianco. Britannico. Anglicano.
Attenzione, perché se passa – come sembra dalla reazione da cane di Pavlov dei tg – questa narrativa, allora abbiamo scoperchiato davvero il vaso di Pandora del globalismo. Il perché è presto detto e ce lo mostra plasticamente questo grafico contenuto nell’ultimo sondaggio YouGov, pubblicato proprio ieri: quanto accaduto dal voto dell’8 gugno in poi e la gestione dello stesso posta in essere da primo ministro e Partito conservatore hanno di fatto spalancato potenzialmente le porte di Downing Street al Labour. Il tutto in dieci giorni. In aprile, infatti, Theresa May aveva un rating di favore a +10, mentre alle fine di maggio, a causa della pessima campagna elettorale condotta, quella valutazione era già scesa a -5. Dopo il voto per le legislative, è precipitata a -34. Attualmente, il primo ministro è impopolare esattamente come lo era Jeremy Corbyn lo scorso novembre, quando toccò il rating negativo massimo di -35. Al contrario, il Labour sta volando: alla fine di aprile, subito dopo l’indizione di elezioni anticipate, il rating di Corbyn precipitò a un nuovo minimo, qualcosa come -42 a poco più di un mese dalle urne.
L’ultimo sondaggio YouGov condotto alla vigilia del voto segnava già un recupero enorme, visto che il rating di approvazione di Corbyn era salito a -14: oggi è a 0, quindi il leader laburista ha tanti cittadini che lo apprezzano, quanti quelli che non approvano il suo comportamento. La May, invece, è alla deriva: a fine aprile, l’85% degli elettori conservatori valutava favorevolmente il primo ministro, oggi siamo al 57%. In netto contrasto la percezione pubblica del Labour, visto che Corbyn è passato dal 40% in favore al 75% e ha guadagnato consensi anche tra gli elettori LibDem, potenziale bacino da drenare, dove la sua percentuale di gradimento è salita dal 15% al 69% nel corso della campagna elettorale. Non vi pare la costruzione non solo di un leader, ma anche di un governo prossimo venturo a tavolino? Guarda caso, mentre domenica il Sunday Telegraph rendeva nota la fronda interna ai Tories in caso la May non portasse avanti un’agenda di hard Brexit, il Labour presentava la sua proposta di soft Brexit, quasi un programma di governo. Casualmente, perfettamente sovrapponibile al “piano B” che già ieri circolava in ambito europeo all’apertura delle trattative, con Barnier e Davies gran cerimonieri dell’inciucio europeo. Quasi la certezza che o si tornerà al voto in tempi brevi o, stante l’impasse nella trattativa con i nordirlandesi del Dup, la Regina potrebbe incaricare Corbyn di formare un governo di minoranza, in caso la May gettasse la spugna.
Vogliamo parlare di quanto accaduto in Francia, dove il partito di Emmanuel Macron ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi a un anno a poco più dalla sua fondazione? Non è un altro caso di governo creato in provetta? Oltretutto con l’astensione al 56% al secondo turno delle legislative di due giorni fa. Ma, anche qui come per l’esordio delle trattative per il Brexit, qualcosa è arrivato a stemperare un po’ le polemiche riguardo la reale rappresentanza e il reale mandato popolare di quel governo (tanto che Marine Le Pen ha aperto all’ipotesi di riforma del sistema elettorale), stante i numeri di chi lo ha votato: un bell’attacco jihadista in Mali, Paese in cui guarda caso sono presenti dal 2013 soldati e forze speciali anti-terrorismo dell’esercito e dei servizi francesi. Tra Mali, Burkina Faso e Niger sono 3.500 i militari d’Oltralpe schierati e il resort scelto per l’attacco è meta ambita e frequentatissima proprio da turisti francesi: vuoi portare via le truppe proprio ora che il jihadismo sta rialzando la testa nell’area? Ma va, anzi magari ne mandiamo un po’ di più: almeno anche il comparto della difesa sorride e si raggiunge – e magari si supera – quota 2% del Pil per quanto riguarda l’impegno economico nella Nato, almeno sia Trump che il Deep State sono contenti.
Insomma, la Francia è stabilizzata e la Gran Bretagna seguirà a breve, magari dovendo passare da un’estate bollente di tensione civile ed etnica. La stessa che verrà spenta con la bacchetta magica del buonismo inclusivo e progressista di Jeremy Corbyn e del sindaco di Londra, sempre più star mediatica, Sadiq Khan. Ma cosa c’è dietro questa necessità di pilotare elezioni e puntellare governi? C’è quanto si vede nei due grafici qui sotto, ovvero il fatto che il mercato dei derivati, il vero motore immobile del mondo, ci dica due cose. Primo, il ciclo economico ormai è concluso, siamo all’inizio di una nuova recessione. Secondo, il mercato speculativo ha acceso le sirene dopo l’ultimo rialzo dei tassi da parte della Fed e ora segnala chiaramente la necessità di politiche nuovamente espansive e non più di contrazione monetaria. E, come sta nel paradosso dell’intero sistema finanziario globale, per garantirsi il metadone monetario delle Banche centrali, occorre prima che si sostanzi una crisi di astinenza che spaventi tutti per bene: sia essa dovuta all’allarme terrorismo o agli scontri sociali o alle dinamiche dei conti pubblici, serve che l’intervento sovranazionale sia percepito da tutti come necessario e inderogabile. Per l’ennesima volta.
E che, ad esempio, la volontà del popolo britannico di dar seguito alla scelta fatta con il referendum dello scorso anno sia silenziata e resa ignorabile dal bene comune, dal placebo della stabilità: viviamo in un mondo basato su debito e leva, il tutto a favore di un 1% dell’umanità che vive grazie ai soldi sui soldi dei loro investimenti già in portafoglio. Nessuno investe per la crescita o per la ricerca, si sfrutta l’operatività manipolatoria delle Banche centrali per aumentare sempre di più la propria rendita di posizione. E su quella scommessa grava il peso di un intero sistema di centinaia triliardi di dollari, pronto a saltare in aria nel momento in cui qualcuno mettesse in dubbio la sua tenuta e la prosecuzione della partita di giro.
Vi pare normale che un partito nato un anno fa oggi controlli, di fatto, la Francia? Si è mai vista un’ascesa come quella vissuta da Jeremy Corbyn in poco più di un mese e un tracollo come quello di Theresa May, in altrettanto lasso temporale? Tutta colpa dei vecchi partiti francesi non più credibili? Tutta colpa degli attentati di Manchester e Tower Bridge? O forse c’è di mezzo anche lo zampino di politica e media? I due grafici che avete appena visto parlano chiaro, il corridoio di pazienza che le residuali forze di mercato non ancora drogate ci hanno lasciato per calciare in avanti la lattina del Qe globale, sta per terminare, questa volta davvero. Servono shock e conseguenti soluzioni d’emergenza per evitare che questa estate tramuti quella del 2008 in una passeggiata nel parco: anche perché la Cina continua a inanellare default corporate che il governo tampona con iniezioni di capitali, ma non si potrà andare avanti per sempre. Anche perché le spinte della catena di collaterale cinese stanno già infettando il mercato immobiliare canadese e, come ci insegna il drammatico caso di cronaca del Portogallo, ci vuole poco perché un incendio si espanda e vada fuori controllo.
Sembra tutto cronaca, politica, lotta al terrorismo: è solo lotta di sopravvivenza di un sistema talmente marcio al midollo da dover svelare il proprio segreto, ovvero essere controllore di tutto, per poter perpetuare il suo ruolo. E finché le tv e i giornali si comporteranno come ieri, scordandosi di quella notizia da fine del mondo che si chiamava Brexit, perché un furgone magicamente decide di colpire una moschea, allora state certi che dal cul-de-sac in cui ci troviamo non usciremo facilmente. Né in modo indolore.