In un mondo complesso come quello in cui viviamo, capire se Yoram Gutgeld, capo della spending review italiana e più o meno ex consigliere di Renzi, quando prende posizioni politiche vibrate parli soltanto come privato cittadino provvisoriamente dedicatosi a un ruolo tecnico di interesse pubblico o al contrario esprima segnali che raccoglie in gruppi di interesse di suo riferimento è difficile, e peraltro queste sono cose che non ha senso chiedere agli interessati perché la storia insegna che anche i migliori di fronte alle loro “ragioni di Stato” possono mentire.
Sta di fatto però che Gutgeld – ex partner McKinsey con ruoli rilevantissimi e istituzionali svolti in quella veste in Israele – è un uomo attento e consapevole sia alle (e delle) logiche delle relazioni internazionali Italia-Stati Uniti, sia delle dinamiche dei rapporti di business tra la grande finanza internazionale, in gran parte governata da imprese americane molto vicine alla finanza ebraica e l’Europa.
Lunga e noiosa premessa per affermare che il suo appello per la revisione del Fiscal compact, affidato al Corriere della sera e alla sua migliore firma economica, non è una voce dal sen fuggita. È sostanza. Dice Gutgeld: “L’obiettivo del pareggio (del bilancio pubblico italiano, ndr) è iscritto nel Fiscal compact europeo, ma trovo che su di esso occorra una riflessione. Quell’accordo fu pensato in un momento di grande emergenza, nel 2011-2012, e non si è rivelato un successo (…) perché tutti i Paesi faticano a raggiungere l’obiettivo del pareggio di bilancio ad eccezione della Germania che ha un enorme surplus esterno. Ma soprattutto un Paese non è un’azienda. Non può essere gestito come se lo fosse. Lo Stato non deve generare profitti per remunerare il capitale. Dunque non c’è nulla di magico in un surplus o in un pareggio di bilancio pubblico”. Che dire? Sante parole.
All’indomani, però, sempre il Corriere cerca e trova un forte controcanto, intervistando (stessa firma) Valdis Dombrovskis, vicepresidente della Commissione europea (con delega sull’euro, e non sulle misure standard delle zucchine), dichiarando in sostanza che il Fiscal compact non si tocca e che un rifiuto delle regole ricadrebbe in primis sull’Italia stessa, in cui nessun altro governo investirebbe, visto l’altissimo debito pubblico, al di fuori delle garanzie del Fiscal compact, e ha ricordato che il vincolo del pareggio di bilancio è stato inserito nella Carta Costituzionale, oltre che dalla Germania, proprio dall’Italia. Tradotto: “Se volete gli investimenti europei, non permettetevi di ridiscutere il Fiscal compact”.
Non da soli, per lo meno: perché se anche la Francia del pur super-europeista-filo-tedesco Macron, dovesse prendere atto che per lei rispettarlo è difficile quanto lo è per l’Italia, visto che ha un più alto deficit di bilancio, allora un fronte franco-italiano potrebbe meglio competere con i diktat di Berlino. Ma attenzione: perché Parigi dovrebbe fare un favore a un altro Stato? A fugare questa equivoca speranza ha provveduto Pierre Moscovici, commissario europeo agli Affari economici, francese, ipotizzando che il ruolo da lui stesso oggi ricoperto e quello di presidente dell’Eurogruppo convergano in un’unica, nuova figura di ministro delle Finanze europeo che divenga in pratica l’alter ego del presidente della Commissione e il contrappeso politico al ruolo tecnico della Bce e del suo presidente, e provveda a uniformare al massimo, attorno agli obiettivi comuni condivisi, le politiche europee degli Stati dell’Eurozona.
Non c’è bisogno di aver letto troppe spy-stories per fare due più due: in vista della scadenza di Mario Draghi alla Bce, tra circa un anno, Francia e Germania fanno pretattica. I tedeschi vogliono prendersi quel che considerano una loro prerogativa usurpata, la Banca centrale europea, dove nessuno di loro ha mai poggiato le terga sulla poltrona di vertice, ricoperta per il primo mandato da un francese e per il secondo da un italiano. E i francesi, che hanno mangiato questa foglia e come sempre nella loro storia fingono di essere amici dei tedeschi, ma in realtà li odiano e li sfidano regolarmente (perdendo sistematicamente), accettano l’idea di rinunciare alla Bce solo prendendo in cambio la guida della politica economica unitaria.
In mezzo, gli staterelli come il nostro, a guardare questa specie di scontro tra Godzilla e Mozilla, destinato a produrre detriti e schegge impazzite – per esempio sul mercato degli spread – forieri per noi di molti danni e nessun vantaggio. Ma qual è lo scenario a medio-lungo termine? Ovviamente non lo sa nessuno, vista la complessità e imprevedibilità del mondo in cui viviamo, in cui ad esempio la più forte democrazia esistente, gli Stati Uniti, riesce a partorire un mistero simile a Trump… ovvero un ritorno dei Repubblicani alla Casa Bianca dopo sedici anni che si rivela all’insegna di un populismo sgangherato e ondivago, eppure graditissimo ai mercati e alla finanza israeliana, che poi sono la stessa cosa.
Data dunque per espressa l’unica risposta seria sul medio-lungo termine, “boh!”, e volendosi abbandonare a un pizzico di scenarismo, è chiaro che il duopolio Francia-Germania, ripetendo vichianamente e quindi inevitabilmente il corso e ricorso della storia, sfocerà in uno scontro, si spera solo politico, e in una definitiva impasse della costruzione comune. Fin quando gli Stati Uniti, come sempre nella storia, decideranno di nuovo di intervenire direttamente nel pollaio europeo, facendo qualcosina di più dell’esprimersi tramite Gutgeld insomma – e si spera solo con armi economiche – riconfinando la Germania nel ruolo che ha sempre avuto, la vigilata speciale del mondo in chiave preventiva contro il suo carsico e aggressivo egemonismo; e ricordando alla Francia che la grandeur non è più, da Sant’Elena in poi, supportata da concreti primati socio-economici o militari – casino libico docet – ed è dunque una pretesa insostenibile. Ma saranno passati anni da oggi, e l’Italia sarà malconcia.