Sarà probabilmente un weekend storico per il sistema bancario italiano. Entro domenica sera sarà necessario mettere a punto il decreto che consentirà a Banca Intesa di intervenire in Popolare di Vicenza e Veneto Banca in tempo per sottoporlo al Quirinale prima che, lunedì mattina, Sergio Mattarella parta per il Canada dove starà una settimana. In questo modo prenderà corpo l’intervento della banca capitanata da Carlo Messina secondo le modalità previste dall’offerta avanzata mercoledì 21 giugno: un intervento che non costi nulla a Intesa perché ogni onere della complicata operazione di soccorso dovrà essere a carico dello Stato italiano, oltre che degli azionisti e dei detentori di obbligazioni subordinate emesse dalle due disastrate banche venete negli scorsi anni.



Per ottenere questo risultato il governo dovrà attivare più provvedimenti che rendano possibile: 1) la liquidazione coatta amministrativa di Veneto Banca e di Banca Popolare di Vicenza: 2) la nomina dei commissari: 3) l’allargamento delle possibilità di utilizzo dei 20 miliardi di euro stanziati a Natale per gestire la crisi delle banche. Alla fine del processo, le due popolari venete saranno inglobate in Banca Intesa senza incidere in alcun modo sulla consistenza patrimoniale e sulle prospettive reddituali di Intesa. Gli istituti verranno posti in liquidazione e spezzati in due parti. I prestiti deteriorati (cioè quelli a soggetti insolventi o in ritardo nei pagamenti) e quelli non ancora a tale stadio ma giudicati ad alto rischio, insieme alle obbligazioni subordinate già emesse, saranno trasferiti a una sorta di bad bank, cioè un veicolo che dovrà gestire queste situazioni problematiche e cercare di ricavarne quanto possibile. 



Si è parlato impropriamente di soluzione alla spagnola. Anche a Madrid l’intervento del Banco de Santander nel Banco Popular è avvenuto al prezzo simbolico di un euro (tanto quanto pagherà Intesa). Ma il Santander si è impegnato a rimpolpare le casse della preda con 7 miliardi di euro. Soprattutto, l’operazione, passata per l’azzeramento di azioni e di obbligazioni subordinate della banca, non ha comportato alcun costo aggiuntivo per le casse pubbliche. Al contrario la soluzione che si profila per le banche venete comporterà un pesante onere per i contribuenti. Il costo complessivo dell’operazione, sommando i 9 miliardi di euro di crediti in sofferenza lordi, i crediti che ancora non lo sono ma potrebbero facilmente diventare tali, il fondo per i dipendenti in esubero, potrebbe aggirarsi sui 20 miliardi di euro. Un salasso pesante, ma la cui approvazione non è scontata. Anzi.



Il sì definitivo deve arrivare dalle autorità europee competenti, la Banca centrale europea è l’autorità che vigila sulle due banche, e deve dare avvio al processo di liquidazione. Il Single resolution board (Srb) deve essere d’accordo sul fatto che la liquidazione sia la cosa migliore da fare: potrebbe viceversa decidere che è meglio passare per la risoluzione (il cui schema è definito dallo stesso Srb), come è avvenuto per il Banco Popular. La Commissione europea (Direzione concorrenza) deve approvare l’aiuto pubblico, che deve essere compatibile con le regole sugli aiuti di stato. 

Se l’offerta andasse in porto, si legge in un report del Crédit Suisse, il risultato sarebbe win win per le banche italiane. Sia per Intesa, che potrebbe ricevere imponenti sussidi (vedi ad esempio gli 1,4 miliardi di crediti d’imposta in pancia alle due venete), ma anche per il resto del sistema. “Se venissero rimossi i problemi più urgenti delle banche – ha detto Massimiliano Cagliero di Banor Sim, che vanta una lunga esperienza in Goldman Sachs ed è a stretto contatto con gli investitori Usa – si riaprirebbero le correnti di acquisto: le banche contano assai più della situazione politica”. Ma, purtroppo, il caso non si esaurirà con l’intervento di Intesa, una sorta di ultima possibilità dopo il flop dell’intervento di Atlante.

Resta in piedi il caso Mps, ove Atlante è rimasta sola a gestire la questione dei non performing loans. Per non parlare dell’aumento di capitale di Carige, che si profila assai di più pesante di quanto desiderato dall’azionista Vittorio Malacalza. Resta soprattutto la sensazione che la partita sia iniziata male, con la sottoscrizione alla leggera delle norme sul bail-in (senza tener conto del peso delle obbligazioni subordinate sul retail, caso quasi unico in Europa) e sia stata gestita peggio all’insegna della convenienza immediata. E così, oltre al danno finanziario in parte legato agli esasperanti rinvii, si è aggiunto un forte danno reputazionale. Speriamo che la lezione sia servita. Ma è lecito dubitarne.