Negli ultimi vent’anni il mondo della comunicazione è completamente cambiato con una rivoluzione che travolto vecchie abitudini e consolidati imperi economici, che ha trasformato non solo gli strumenti, ma anche il modo di raccogliere e condividere le informazioni. Tutte le imprese editoriali sono costrette a mutare pelle, prospettive e modelli di business, talvolta con risultati positivi, altre volte aggravando con le loro scelte una situazione di fondo già difficile. I segni del cambiamento sono evidenti: le edicole diventano monumenti vuoti e abbandonati, sui treni il giornale non è più un compagno di viaggio, l’informazione dei giovani passa soprattutto per le vie incontrollate dei social network che spesso diventano lo sfogo della rabbia e del rancore.



Siamo ormai di fronte, non solo in Italia, a un cambiamento profondo e strutturale a cui per ora non si è risposto con la necessaria volontà di cambiare. Gli errori, sicuramente in buona fede, delle aziende editoriali sono stati almeno pari a quelli di una corporazione di giornalisti che continua a difendere una struttura antistorica, come l’Ordine che non ha uguali in nessun paese del mondo: il giornalismo è ormai una professione “destrutturata” che non può essere più racchiusa nei vincoli e negli schemi del passato. 



Il primo passo falso degli editori, e questo soprattutto in Italia, è stato quello di diffondere l’abitudine del gratuito su internet con un’informazione sparsa a piene mani e finanziata dagli utili che, almeno fino al 2010, erano garantiti dai giornali tradizionali con i loro lettori e la loro pubblicità. Il secondo passo falso è stato quello di ritenere che il problema dell’editoria non fosse quello dei prodotti, ma fosse quello dei costi. Invece di affrontare in termini creativi la nuova dimensione di internet si è tentato di insaccare non solo i contenuti, ma anche gli strumenti nei nuovi media. E nello stesso privando le aziende editoriali delle risorse, umane e materiali, necessarie a costruire il cambiamento.



Ne è testimonianza il libro di Vittorio Meloni “Il crepuscolo dei media” (Ed. Laterza, pagg. 140, euro 13) in cui si analizza con ampiezza di dati e schiettezza di giudizio, la difficile transizione del mondo dell’informazione che è stato investito dalla rivoluzione del digitale. Non solo la stampa, ma tutti i mezzi di comunicazione sono ormai oggetto di un processo di distruzione creatrice. “Sono cambiati, e per sempre – scrive Meloni – i presupposti che hanno dato vita ai media così come li conosciamo. L’equazione economica che fino a pochi anni fa li ha nutriti e resi prosperi va ripensata, perché ormai non è più sostenibile. La missione, con tutta probabilità, non sarà più di raccogliere lettori attorno a un prodotto, ma di cercarli ovunque possano essere raggiunti da notizie. Coinvolgendoli nelle comunità di interessi. Ricostruendo in forme inedite. Ricostruendo in forme inedite la frammentarietà del mondo. Certificando il vero, stigmatizzando il falso”.

È questa in fondo la vera sfida di questi anni. Superare non solo le ideologie, gli schemi astratti, i luoghi comuni, ma cercando anche di contrastare positivamente l’atteggiamento di vuota protesta e di facile condanna. Nella convinzione che alla fine l’informazione buona riuscirà a sconfiggere quella cattiva. Perché l’unico elemento che fa da congiunzione tra il passato di carta e il futuro digitale è e resterà la persona, con la sua identità, le sue passioni, la sua ricerca della felicità. E forse è anche un compito del giornalista ricordare, quando può, che l’uomo non è fatto per vivere di rabbia, ma proprio per ricercare la felicità. Anche degli altri.